Oser le dire. Présence de Gérard Delaloye

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Un group d’amis de Gérard Delaloye, coordonnés par Jean-Pierre Fragnière, a publié, après sa mort, un livre qui en présente le profil humain et l’oeuvre. «Oser le dire» est le titre de l’ouvrage, à laquelle ont donné leur contribution Delphine Bovey, Madeleine Florey, Jean-Pierre Fragnière, Gianluigi Galli, Raymond Ganguin, Hans-Ulrich Jost, Claude Muret, Jacques Pilet, Daniel de Roulet, Andrea Salati, Bruno Strozzi, Ion Vianu. On a ajouté aussi des textes de Gérard Delaloye.

En dernière page: «On est curieux, ou casanier. On hume le monde, ou on serre ses œillères. Gérard Delaloye a beaucoup osé. Il a dégusté la bonne culture du collège de Saint-Maurice, pour s’en extraire et découvrir, à 20 ans, d’autres horizons littéraires, l’histoire, l’engagement politique au jour le jour, la mise en œuvre du projet marxiste, en Suisse et en Europe. Il a mouillé son maillot au Tessin, à Bâle, à Lausanne, à Genève.
Journaliste, il s’engage dans l’aventure du Journal du Valais, dans celle de l’Hebdo, du Nouveau Quotidien et du Temps. On le lira aussi dans largeur.ch. Passionné d’histoire, il met en évidence l’aventure des Walser et il réécrit des segments entiers de l’histoire du Valais. Essayiste, il propose un éclairage ori-ginal sur les offensives de Christophe Blocher et les hoquets de la démocratie helvétique. Pas de langue de bois. Une grande soif de vérité. Une œuvre stimulante et chaleureuse».

Le livre a paru aux editions Socialinfo de Lausanne en 2017 (158 pages, CHF 24).
Pour en savoir plus ou pour le commander cliquer ici .

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† GÉRARD DELALOYE (1941-2016)

 

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Le 5 décembre 2016 Gérard Delaloye, auteur de ce blog, est decedé à Sibiu.
Par la volonté de son épouse Adriana et le désir de ses amis,
on a décidé de garder en ligne le blog, témoin, à coté des livres qu’il a écrit,
des interêts et des passions intellectuelles de Gérard.
Le blog reste ouvert à tous ceux qui désirent envoyer un texte personnel
lié à la mémoire de Gérard, en n
importe quelle langue.
Envoyer à gerardsibiel@gmail.com

 


DOVE FINISCE LA FRONTIERA

di Giovanni Ruggeri

Nella notte tra il 4 e il 5 dicembre 2016, si è spento a Sibiu (Romania) Gérard Delaloye, raffinato intellettuale svizzero stabilitosi da molti anni nel sud della Transilvania, a Sibiel, insieme alla sua sposa Adriana, romena. Assiduo lettore della nostra rivista Orizzonti Culturali Italo-Romeni (solo una banale mancanza di coincidenze ha impedito che ne fosse anche collaboratore), Gérard Delaloye è stato uno storico e un giornalista di prim’ordine, che alla Romania ha dedicato diverse pubblicazioni, nelle quali la profondità e il rigore dello storico di lungo corso si sono espresse con la prosa brillante e avvincente del giornalista di profilo.

Nato nel 1941 a Lourtier, nel Canton Vallese, dopo gli studi liceali presso il collegio Saint-Maurice gestito da religiosi (eredità questa che rimarrà per sempre nella sua vita come una sorta di polo dialettico, tra polemica verso un mondo clericale sclerotizzato e rispetto verso la dimensione religiosa in quanto tale), Gérard Delaloye si laurea in Lettere a Losanna, per poi insegnare storia a Ginevra. Negli anni Settanta, un’antica inclinazione verso il giornalismo lo porta a collaborare a diverse pubblicazioni, con un rapporto via via più consistente e regolare (nel 1978 al Journal du Valais, nel 1980 a L’Hebdo), finché nel 1991 lascia l’insegnamento per partecipare alla fondazione del Nouveau Quotidien, dove si occupa di politica estera, storia e letteratura. Spirito libero e aperto, nel 1998 prende parte al lancio del quotidiano Le Temps, con il quale continua a collaborare fino agli ultimi anni, tenendo al contempo alcune rubriche su siti di informazione svizzera come dimanche.chLargeur.com e Matin Dimanche.

«Uomo di cultura eccezionale, aperta a diversi orizzonti, la Francia, la Germania, l’Italia e, in questi ultimi anni, la Romania e l’Europa dell’Est. Un grande europeo». Le parole dell’amico Jacques Pilet sintetizzano al meglio un tratto essenziale della personalità umana e del profilo intellettuale di Gérard Delaloye che, mai dimentico delle sue origini svizzere, cui ha dedicato diversi libri (tra questi, La Suisse à contre-poil, nel 2006, e L’évêque, la Réforme et les Valaisans nel 2009), investe gli ultimi dieci anni della sua vita nello studio sistematico della storia della Romania, in particolare della Transilvania. Trasferitosi definitivamente, nel 2007, da Losanna al villaggio di Sibiel, vicino a Sibiu, assecondando un desiderio maturato con la moglie Adriana – anche sulla scia della testimonianza di un altro grande “straniero naturalizzatosi romeno”, il compianto professore belga Eugène van Itterbeeck, studioso dell’opera di Cioran e iniziatore a Sibiu dei seminari internazionali annuali su Emil Cioran – Gérard Delaloye matura una conoscenza accurata di aspetti essenziali del passato e del presente della Romania, che gli consente di evidenziare parallelismi, o quanto meno analogie, con alcune dinamiche della storia elvetica, come nel caso della composizione multietnica della Transilvania (di grande interesse questo saggio pubblicato in romeno sulla celebre Revista 22 di Bucarest).

Nascono da questo lavoro di ricerca, ma anche dal piacere della discussione e della divulgazione, le sue due opere più recenti: il blog personale Carrefour est-ouest che ha tenuto con regolare costanza negli ultimi anni, commentando fatti del presente e del passato della Romania, e l’ultimo suo recente libro (in francese), il cui titolo pare oggi un presagio del suo “passaggio”: Les Douanes de l’âme (Ed. L’Aire, Vevey 2016). Figlio di un doganiere del Vallese, Gérard Delaloye riconduce le pluriennali incursioni nello spazio socioculturale romeno alla dimensione metaforica della frontiera, scegliendo per questo suo libro un titolo ispirato a un rito e credenza da lui scoperti in Romania, in occasione delle esequie di suo suocero: «Quando il prete finì di incensare le offerte, noi ci avvicinammo per reggere il vaso con la colivă [un dolce tipico utilizzato nella liturgia funebre presso gli ortodossi romeni, ndr] e con il vino e sollevarlo ritmicamente verso il cielo, per accompagnare simbolicamente l’anima, lavarla dai suoi peccati, sostenerla nel suo passaggio delle dogane dell’anima».

E proprio Les douanes de l’âme ci appare oggi come una sorta di testamento culturale, non privo di risonanze affettive. Nei dodici testi in gran parte inediti, sfilano alcuni dei nomi e temi più significativi del paesaggio romeno, accostati con personale originalità. Accade così, ad esempio, con il saggio sulle origini byroniane del Dracula di Bram Syoker, o con quello dedicato all’ispiratore transilvano di Hergé e del suo viaggio sulla luna, mentre una posizione centrale è riservata alla migrazione dei Sassoni di Transilvania, letta in paralleo con quella dei Walser nel Vallese. L’accostamento Transilvania-Svizzera emerge con decisione anche quando vengono affrontate le analogie multietniche della Svizzera e dei Sieben Bürgen, dei luterani in Transilvania e dei seguaci di Michel Servet, e sempre di multiculturalità si tratta nel caso ad esempio della Transilvania un tempo ungherese o della Bucovina in alcune zone – come a Cernăuţi/Černivci – fino al 1918 a maggioranza ebraica. Personalità di prima grandezza sfilano nel viaggio de Les douanes de l’âme, dove la multiculturalità è cifra costante: è il caso del ritratto dedicato a Miklós Bánffy, l’aristocratico ungherese di Cluj, del breve saggio su Paul Celan, il poeta ebreo di Cernăuţi/Černivci, e delle pagine su Herta Müller, Nobel della letteratura 2009, originaria del Banato.

La metafora del viaggio, nel caso di Gérard Delaloye, è costitutiva, e non solo perché già nel 2009 egli aveva pubblicato uno splendido diario culturale intitolato proprio Le voyageur (presque) immobile (Ed. de L’Aire, Vevey), testimonianza suggestiva del suo spessore culturale, ma anche perché il movimento agile della curiosità intellettuale e della fisica disponibilità a dislocarsi su orizzonti diversi ne hanno caratterizzato la vicenda umana e culturale. Mi permetto di aggiungere che ho avuto la fortuna e il dono di avere Gérard come amico, un amico sincero, un vero signore, un uomo che sotto una riservatezza tutta “svizzera” custodiva un animo buono e autentico. La scomparsa di persone come lui è una grave perdita non solo per coloro che lo hanno amato – alla sua sposa Adriana vanno le nostre condoglianze – ma anche, e per certi versi anzitutto, per il Paese che egli ha amato, la Romania, oggi più che mai bisognosa, in un contesto globalizzato, di non perdere contatto e consapevolezza delle sue radici culturali e antropologiche. Queste, con passione e intelligenza, Gérard Delaloye non ha mai cessato di indagare e porre in valore.

Qui l’audio con l’ultima intervista a Gérard Delaloye in occasione della pubblicazione del suo libro, trasmessa dalla radio svizzera RTS.

(articolo pubblicato in
Orizzonti Culturali Italo-Romeni, gennaio 2017)

 

NOS IMPATIENCES COMMUNES, MAIS PLEINES D’ESPOIR
de Daniel de Roulet 

Le 11 octobre 2016, Gérard Delaloye a rédigé sa dernière contribution au blog Carrefour est-ouest qu’il alimentait régulièrement. En général, il nous écrivait depuis la Roumanie où il avait élu domicile aux côtés de sa compagne, Adriana. Mais ce jour-là il était à Lausanne.

Le lendemain matin, Gérard m’a téléphoné pour qu’on prenne rendez-vous. Comme à chaque fois qu’il passait en Suisse, il faisait la tournée de ses nombreux amis. Depuis longtemps j’avais pris l’habitude de me disputer avec lui sur toutes sortes de sujets politiques d’abord, littéraires plus tard. À la fin des années 60, notre première rencontre avait eu lieu dans la belle maison où il vivait à Carona au Tessin. Gérard avait badigeonné de grandes lettres qui remplissaient toute la paroi d’une grande cuisine au plafond vouté : « Padroni, borghesi, ancora pochi mesi ». Il n’était alors pas seul à penser que le système capitaliste allait s’effondrer dans peu de mois. Plus réaliste, je lui avais proposé d’adoucir la formule en : « Padroni, broghesi, ancora pochi anni ». Il m’avait traité de réformiste petit-bourgeois, injure suprême de l’époque.

Un demi-siècle plus tard, le 12 octobre 2016, Gérard au téléphone pour un rendez-vous. On se rencontrait en général dans un bistrot pour manger, boire un verre. On faisait le tour de la situation mondiale, oui rien que ça : une élection par ci, des barricades par là et, seulement ensuite, on parlait de la Suisse dont il connaissait mieux que moi personnel politique et institutions.

Il était historien, il avait été journaliste. À chacune de nos rencontres, on ajoutait quelque nouvel argument à nos points de vue.  On finissait souvent par évoquer les gens que nous avions connus, ceux dont la santé déclinait, celui-là avec sa nouvelle femme, celle-là avec l’article qu’elle avait publié, un autre encore passé du côté des renégats. Lui-même, au fil des ans, critiquait mon manque de réalisme et moi son pessimisme. On n’avait pas de contentieux, de ces non-dits, de ces tricheries qui minent les rapports. On était loin de s’entendre sur tout et notamment sur notre degré de dissidence, on se le disait, c’est ça l’amitié.

 Ce matin-là on comparait donc nos agendas pour un rendez-vous quand il m’a dit que le soir même il irait voir l’Orfeo de Monteverdi à l’opéra de Lausanne avec Adriana. Comme par hasard, j’y allais moi aussi, accompagné. On a décidé de se retrouver tous les quatre à l’entrée de la salle. Ç’aurait été une première, nous quatre à l’opéra. Ce n’était pas vraiment son genre ni le mien de fréquenter le public qu’on rencontre en ces lieux : notables, bourgeois sur leur trente et un, champagne à l’entracte. Ç’aurait peut-être été le signe qu’on s’embourgeoisait. Je me réjouissais de le lui reprocher.

Le soir, à sept heures moins le quart, Adriana était seule sur le trottoir devant la salle. Elle n’avait pas bonne mine, nous a dit : « Gérard est à l’hôpital, un malaise, on ne sait pas quoi. » Elle nous a quittés, nous avons pris nos places. J’ai suivi l’Orfeo d’une oreille et d’un œil distraits. On connaît le sujet. Orphée descend aux enfers pour arracher sa bien-aimée aux griffes de la mort. Je me souviens que pendant tout le spectacle je me suis demandé ce que pouvait bien faire Gérard à l’hôpital. Si c’était le début de la fin pour lui, un sérieux avertissement ou juste une mauvaise passe comme en ont ces faux vieillards qui ressortent des soins intensifs tout requinqués quarante-huit heures plus tard. Et qu’est-ce qu’un Orphée d’aujourd’hui pourrait bien faire pour arracher son ami aux griffes des maîtres de l’enfer ? Contrairement à la mythologie, dans l’Orfeo de Monteverdi, la fin est heureuse. Eurydice meurt par la faute d’Orphée qui avait promis de ne pas se retourner tant qu’ils ne seraient pas tous deux revenus sur Terre. Mais, grâce à un deus ex machina, Apollon se présente au bon moment pour emmener Orphée au ciel parmi les dieux.

En sortant de l’opéra dans la nuit lausannoise, j’ai pensé, un peu superstitieux : pour Gérard, c’est bon signe. Hélas, Monteverdi avait tort. Aucun Orphée triomphant n’a pu sauver Gérard.

Quand je pense à lui, je ne peux m’empêcher de sourire de nos impatiences communes, mais pleines d’espoir… Alors, Gérard, encore quelques mois ou quelques années ? Ici se termine ton blog. Mais il reste ouvert, accessible à tous ceux pour qui ta prose lucide a beaucoup compté. Merci.

 

HOMMAGE À MON AMI GÉRARD DELALOYE
de Raymond Ganguin

Je voudrais par la présente, rendre hommage à Gérard,
Malheureusement, merveilleuse personne connue sur le tard

A mon arrivée dans notre chambre d’hôpital,
Il m’a dit : Moi c’est Gérard, nous sommes sur le même bateau
Alors on peut se tutoyer, cela sera plus facile.
Ce fut le départ de quinze jours d’une formidable complicité.
Pris malgré nous dans cette croisière hospitalière
Pour nous, le paquebot CHUV nous donnait l’impression,
De traverser quelques fois des tempêtes, qui nous faisaient tanguer
De pertes d’équilibre ou de repaires nous essayons de le prendre avec sourire.
Nous nous encouragions à bien rester à flots, malgré les remous intérieurs,
Et nous nous rendions mutuellement de petits services.

J’ai gardé souvenir qu’un soir, à la visite et l’étonnement de l’infirmière,
Elle nous a trouvé, assis côte à côte sur mon lit, a regarder sur l’ordinateur,
L’émission « C’était mieux avant » sur la télévision suisse.
Puis, grâce à l’internet, retrouver sa maison en Roumanie.
Que des discussions également, venant d’un homme d’une rare distinction,
Me parlant de son enfance, avec son père douanier, ses études,
Son statut d’instituteur, puis de journaliste, et enfin d’écrivain.

Ce fût un bref moment de mon existence, et son départ m’attriste infiniment,
Mais je tiens à le remercier pour les moments d’exceptions que nous avons vécu
Et avoir pu fairela connaissance d’un grand Monsieur
Qui gardera une très grande place dans mon cœur.

Alors qu’une page du grand livre de la vie se tourne, il voulait avant de partir
Retrouver sa patrie d’adoption et de là, entamer son dernier voyage.

Alors à sa femme Adriana et sa famille, remercions Gérard d’avoir été parmi nous
Et lui souhaitons un grand et beau voyage dans les étoiles.

 

POUR SALUER LE VOYAGEUR PRESQUE IMMOBILE
de Catherine Lovey

Quelques mois après avoir accompagné la sortie de son dernier livre, Les douanes de l’âme Gérard Delaloye est mort, le 5 décembre 2016, à l’âge de septante-cinq ans. Il avait été prof, puis historien, journaliste, auteur, lecteur, observateur, analyseur, fouilleur, arpenteur et coupeur de cheveux en quatre. Il lui faudra encore sept années, si l’on en croit un ancien rite orthodoxe, pour parvenir à franchir ces douanes qui marquent la séparation entre l’ici-bas et l’au-delà.

Plutôt que de jeter quelques piécettes, comme on le fait parfois encore en Roumanie au passage d’un cercueil, ou de mettre sur sa tombe, à la mode de chez nous, fleurs et bougies ou, pourquoi pas, des répliques en papier de billets de banque, de smartphones et d’ordinateurs, ainsi que le pratique désormais la Chine consumériste, afin que le défunt ne manque d’aucun de ces biens devenus si indispensables à la vie sur terre qu’ils ne peuvent qu’être présumés utiles dans la mort, j’aimerais déposer quelques mots en son nom, qui sont ceux de la gratitude.

Depuis quelques années, ma bibliothèque accueille un certain nombre de livres qui m’ont été donnés par Gérard Delaloye, à l’époque où il était en train de vider son appartement lausannois pour s’établir définitivement en Roumanie. Le jour où je m’étais rendue dans cet appartement, c’était la première fois que je le rencontrais. Jusque-là, nous avions seulement eu l’occasion de correspondre un peu, à l’occasion de la sortie de Un roman russe et drôle en 2010. Mais cela avait suffi pour que Gérard en déduise que j’étais le genre d’oiseau susceptible de le débarrasser d’ouvrages devenus extrêmement peu cotés sur le marché : bolchévisme et soviétisme à la sauce quasi-encyclopédique, textes historico-politiques en veux-tu en voilà, dissidence en bonne et due forme, procès de Moscou et, bien entendu, du Lénine, du Boukovsky, du Soljenitsyne, du Zinoviev, du Sakharov, du Wat etc., sans oublier du bon gros communisme, certes soluble dans l’alcool mais surtout dans le temps qui passe. Bref, tout un univers de pensées, si proches encore, et qui avaient pourtant l’air presque empaillées.

PARLER CHIFFON

C’est ainsi que je m’étais retrouvée face à une bibliothèque dans laquelle j’avais pu puiser tout mon saoul. Gérard avait bien entendu fait le ménage et pensait l’avoir bien fait. Or, j’ai perçu tout de suite une assez grande communauté des âmes. La communauté de ceux qui ne sauraient voir partir des livres sans ressentir, au-delà du soulagement, un assez vif pincement au niveau des entrailles. Non pas que ces ouvrages aient la moindre importance désormais. En revanche, l’individu qui avait autrefois acheté ce livre, l’avait lu, puis avait pris la peine de lui faire une place dans sa bibliothèque, eh bien ce jeune-vieux bougre continue à en avoir, lui, de l’importance !
Comment oublier le lecteur que nous avons été ? Celui qui, à vingt ans, s’était demandé si, là-bas, ils n’avaient pas par hasard trouvé un système moins injuste où l’homme pouvait vivre mieux. Puis celui qui a commencé à avoir des doutes. Les a cultivés. A cherché. Systématiquement. Inlassablement. Celui qui a lu à la folie, relu, creusé et découvert de nouveaux horizons, de nouvelles questions. C’est fou ce qu’un tel lecteur peut demeurer vivant à l’intérieur de nous ! Il faudrait plutôt écrire de 
tels lecteurs, tant ils sont nombreux. Chaque livre conservé au fil des ans témoigne, bien au-delà de son strict contenu, de ce que nous fûmes, de ce qui nous a animé, de nos enthousiasmes et errements, des odeurs et couleurs qui nous environnaient et, immanquablement, de ceux que nous aimions et qui nous aimaient. Si bien que lorsqu’il faut faire le tri dans sa bibliothèque, c’est d’abord à des chapitres de soi-même qu’on ne cesse de devoir dire adieu.

Pour des gens qui vivent en grande partie par et pour les livres, rien n’est plus fascinant que de faire connaissance autour d’une bibliothèque. C’est un peu comme parler chiffon, mais dans le détail, sans s’épargner la poussière ni le récit des petites misères.
Dans mon souvenir, nous n’avions, ce jour-là, pas échangé un seul mot à propos du Valais, dont nous sommes pourtant tous deux originaires. Tel n’était pas notre point de rencontre, bien que Gérard n’ait jamais quitté ce canton des yeux, et encore moins de la plume, y compris après avoir cessé d’être le directeur du Musée cantonal d’Histoire militaire de St- Maurice. J’en ignore d’ailleurs tout, je veux dire de ce musée et de ce poste, si ce n’est que je trouve amusant qu’on ait laissé pareil esprit s’asseoir dans de ce genre de fauteuil…

Le fait est que les livres qui encombraient encore la bibliothèque à libérer regardaient presque tous vers l’Est. Et voilà que, sans nous connaître, c’était aussi dans cette direction qu’incurablement, mais pas exclusivement, nous avions tendance à regarder. Pas seulement la politique, pas seulement le sinistre envers de l’utopie, mais les us et coutumes quotidiens, les langues, les traditions culinaires, musicales, les manières d’appréhender le temps et la mort. Sans compter que Gérard allait s’y installer pour de bon, dans la Roumanie de son épouse Adriana. Tous deux avaient choisi une région de forêts vallonnées, qui promettait d’être aussi vivable qu’un morceau encore vert de l’Helvétie, tout en offrant la proximité de Sibiu, une belle ville de culture qui devrait faire oublier la distance avec Bucarest.

UN VOYAGE ROUMAIN

Un peu plus tard, après un hiver transylvain qui avait été aussi rude que ceux du Valais d’autrefois, Gérard avait écrit à un certain nombre de ses connaissances et amis pour proposer à qui le voudrait bien de faire un voyage estival en Roumanie, histoire d’en avoir le cœur net. Du tourisme certes, mais culturel avant tout. En petit groupe. Accompagné d’une jeune guide, Ioana Pau, originaire de Sibiel, le village où ils vivaient désormais. Et épaulé, bien entendu, par un Gérard pas mécontent de partager quelques-unes de ses nouvelles passions, parmi lesquelles l’histoire des Saxons de Transylvanie. Inutile de dire que j’ignorais tout – et sans doute n’étais-je pas la seule – de cette importante population d’origine allemande, dont la trajectoire roumaine ne s’est pas révélée tranquille, ni même reluisante, en particulier pendant et après la deuxième guerre mondiale.

Ainsi fut donc fait, sur des routes dont nous découvrîmes aussitôt le côté cahotant, ce qui nous obligea à multiplier les kilomètres annoncés par un facteur de temps bien plus élevé que celui qui a cours plus à l’ouest de l’Europe… Un voyage fort intéressant, que je vais m’abstenir de raconter ici dans le détail, si ce n’est pour dire qu’il nous permit d’abord de faire connaissance entre nous, compagnons de route improvisés, et de comprendre que nos horizons étaient aussi divers que compatibles. L’itinéraire choisi contribua à nous donner une meilleure idée de la grande diversité géographique et culturelle de ce pays, qui n’est pas constitué que de monastères et d’églises épatants, bien que tous valent le détour. Chaque voyageur en aura gardé ses propres souvenirs exclusifs. Les miens sont surtout liés à la découverte de chemins de campagne et de doux vergers dans les environs de Sibiel. À l’impression toute soviétique que m’avait faite la ville de Bacau. Et à ce petit cortège funéraire que nous avions croisé je ne sais plus où, ce qui nous avait valu, sans politesse supplémentaire, d’être invités par la famille du défunt à la collation funéraire en plein air. Celle-ci s’était tenue à côté du cimetière, à même le coffre ouvert d’une ou deux voitures qui avaient transporté ce que de discrètes femmes, qui nous entouraient en foulards et robes noires, avaient sans doute passé beaucoup de temps à préparer. J’en garde une couronne de pain tressée qui nous avait été offerte, et qui s’est très bien conservée, enveloppée dans une page du Jurnalul National, datée du mercredi 11 juillet 2012.

Quant aux discussions, elles sautèrent du coq à l’âne durant ce voyage, non sans détours du côté de l’histoire roumaine, si méconnue, mouvante, et tellement pleine de minorités qu’on a vite fait de déclarer forfait. Je me rappelle aussi que, presque fatalement, certaines conversations avec Gérard nous avaient conduits encore un peu plus à l’Est, du côté de l’Ukraine. Tous deux lecteurs passionnés de Vassili Grossman, il avait été question, à un moment donné, de retrouver le nom de la ville d’origine de l’écrivain, celle où sa mère avait été assassinée, en même temps que 35’000 autres juifs. Eh bien ce nom, nous avions fini par lui mettre la main dessus, en plein soleil et sans recourir au moindre écran connecté, et c’est Berditchev !

FÉROCE APPÉTIT

Delaloye est un homme des livres, c’est en tout cas ainsi que je l’ai – un peu – connu, et c’est ce qu’il me laisse. Pas seulement les livres qui sont désormais dans ma bibliothèque, mais surtout ceux qu’il m’a encouragée à lire, souvent sans même le savoir, que ce soit à travers les articles auxquels nous pouvons toujours accéder sur son blog Carrefour est-ouest et surtout par l’entremise de son Journal, magnifiquement intitulé Le Voyageur (presque) immobile paru aux éditions de L’Aire en 2009.
Le seul reproche que je puisse adresser à ce Voyageur pas si immobile, c’est de ne pas être assez épais. Sans doute l’indice d’un homme occupé à fouetter trop de chats à la fois. Pour le reste, j’en recommande vivement la lecture, voire la relecture, car rien ne nous incite mieux à nous plonger, à notre tour, dans l’œuvre de ceux que Gérard désigne comme étant des « écrivains du moi », et chez lesquels il a entrepris des incursions aussi personnelles qu’enthousiastes.

Comment ne pas foncer acheter ou emprunter Mes Soldats de papier de Victor Klemperer, après avoir lu ce que ce texte a provoqué chez celui qui s’y est plongé, s’en est retrouvé captif durant six ou sept semaines, et a pris la peine de nous le faire savoir ? Car ce qui nous entraîne, c’est bien sûr aussi le côté subjectif de Delaloye en tant que lecteur averti, qui sait partager, livrer ses impressions, faire ses petites observations et comparaisons, penser à voix haute, dire quand ça l’ennuie, quand il n’est pas d’accord, et dire aussi quand il est complètement chamboulé. Bref, le lecteur capable de transmettre. Voici ce qu’il écrit notamment, le 12 octobre 2000, à propos du Journal de ce Klemperer, qui a tenu d’une manière magistrale la chronique quotidienne du nazisme en train de s’emparer de tout un peuple : « J’en ai lu début septembre deux ou trois cents pages pour en faire une brève recension dans l’hebdomadaire dimanche.ch. Je pensais m’en tenir là. Erreur ! Je n’ai plus décroché et, après lecture des 1500 pages qui suivent, je suis encore complètement sonné. Dès ma journée de travail terminée, je n’avais qu’une hâte, me replonger dans les vicissitudes de la quotidienneté de cet homme dont le mode de vie, le caractère, les ambitions n’avaient à priori rien pour me plaire. ».
Et que dire du journal de Christa Wolf 
Un jour dans l’année.1960-2000 sur lequel je n’ai pas tardé à me précipiter, moi aussi, après avoir découvert ce qu’en avait pensé Gérard qui n’avait rien lu non plus de cette écrivain est-allemande jusqu’en 2006. « Il m’arrive rarement d’acheter le livre d’un auteur inconnu en ne me fiant qu’à la quatrième page de couverture. Ces quelques lignes m’ont pourtant séduit : « En 1935, Maxime Gorki avait invité les écrivains du monde à raconter une journée de leur vie, la même date pour tous, le 27 septembre. L’idée avait été reprise en 1960, et une nouvelle génération s’était alors essayée à l’exercice. À cette date, Christa Wolf eut envie de relever le défi, elle tint donc la chronique de cette journée du 27 septembre 1960, puis, prise par le jeu, s’astreignit à cette discipline jusqu’à aujourd’hui, soit pendant plus de quarante ans. »
Quant au 
Journal inutile du sulfureux Paul Morand, Gérard s’y est attardé sans trop d’hésitation, pas dupe pour un sou concernant le fond du personnage, mais y trouvant largement de quoi butiner : « Léger sentiment de frustration dû à l’envie de lire encore quelques pages… » écrit-il, en date du 10 mai 2001, après avoir terminé la lecture. Signalons encore le non moins problématique Ernst Jünger, et son Soixante-dix s’efface que Delaloye introduit en relevant qu’il n’est « ni banal, ni courant de lire la prose d’un centenaire. » En effet !

Tant d’autres noms, dont celui du bien-aimé Robert Walser, et tant d’autres titres surgissent au gré des semaines et des années, expédiés en quelques lignes ou en quelques pages, et qui contribuent à susciter, chez tout lecteur à l’affût, un appétit du genre féroce.
Les notations personnelles, je veux parler de celles qui concernent la vie de Delaloye en dehors de ses lectures, ne risquent pas d’étouffer le texte. Il y en a malgré tout qui sont plantées comme les petites balises d’une vie privée où la Roumanie n’est jamais très loin. Parfois, le trait devient acide : « Sortie hier du premier numéro de dimanche.ch, avec un édito du propriétaire, Michael Ringier. Nous avons réalisé un bel emballage pour la pub qu’il doit contenir. Cela devrait séduire le consommateur. Pour le reste, rien à dire, car il n’y a rien à lire. ». C’était en date du 29 septembre 1999. Qu’aurait donc dit Gérard, s’il avait été encore parmi nous, en apprenant, le 23 janvier dernier, que la mort par étranglement immédiat venait d’être prononcée contre
L’Hebdo, sans autre forme de procès ?
Parfois aussi, et ce sera, je l’espère, une conclusion qui lui aurait plu, le trait sait se faire humble, comme en ce mercredi 22 décembre 2004, où la lecture des 
Carnets de la drôle de guerre de Sartre le conduit à écrire très lucidement ceci : « De tous les journaux que j’ai lus – et cela commence à compter ! – un seul lui est comparable, le Zibaldone de Leopardi. Là gît la différence entre nous autres, humbles tacherons, petites fourmis, et les génies. Elle est incommensurable. »

(publié sur le blog
http://www.catherine-lovey.com/blog/2017/2/27/pour-saluer-le-voyageur-presque-immobile)

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Globalisé ou mondialisé, le progrès ne vise aujourd’hui que le fric au détriment de l’homme

Reprenant un sujet traité par la NZZ am Sonntag du 4 septembre dernier Michel Béguelin raconte avec humour dans Domaine Public http://www.domainepublic.ch/  (repris par le journal online valaisan L’index du 24 sept. http://1dex.ch) les malheurs des ingénieurs constructeurs du tunnel de base du Gothard qui par leur insigne rapacité ultralibérale ont cru faire une belle économie en réduisant de 10 cm le diamètre du tunnel tout en oubliant que cela provoquerait dans une forte proportion la résistance de l’air et donc une augmentation des frais de gestion. Voilà qui va porter un sérieux coup à la politique d’économie par licenciements massifs des CFF et, espérons-le, à la carrière de son directeur général aussi médiatisé que déconsidéré.

Dans un autre domaine, l’ancien journaliste que je suis est resté stupéfait par le sans-gêne et l’arrogance de Christoph Tonini patron de Tamedia, le grand groupe de presse zurichois qui vient, du haut de ses six millions de salaire en 2015, d’annoncer la suppression de 31 emplois, dont 24 seront des licenciements: 19 emplois supprimés à 24H, dont 16 licenciements; 12 emplois supprimés à la Tribune de GE, dont 8 afin de leur faire payer à ces tire-au-flanc la perte de 2,5 millions de pub pour les 6 premiers mois de 2016. Il s’est abstenu de préciser que Tamedia avait fait un joli bénéfice de 334 millions de CHF l’an dernier. (cf. Le Courrier, 28.09.16)

Ces surprenantes nouvelles m’ont rappelé qu’au printemps dernier j’ai passionnément dévoré l’ouvrage d’un juriste-économiste-historien, Alain Supiot, professeur au Collège de France –La Gouvernance par les nombres, Fayard – et que je m’étais alors promis d’en parler à mes lecteurs. Je me contenterai ici d’en donner quelques notes glanées au fil de la lecture, ayant moins que jamais vocation à me lancer dans l’économie politique.

Supiot commence avec les temps modernes en lançant quelques noms de philosophes qui marquèrent le démarrage de la modernité en flattant la machine, de l’automate à l’homme machine, symboles ô combien emblématiques de la nouvelle civilisation. On retrouve dans l’affaire des gens comme Hobbes ou La Mettrie (dont j’ai publié L’Homme Machine chez Pauvert en 1966 !) ou les frères Pierre et Henri Jaquet-Droz de Neuchâtel réalisateurs en 1774 d’automates figurant le dessinateur, la musicienne ou l’écrivain (capable sur programmation d’écrire n’importe quel texte de quarante signes sur trois lignes – Vive Twitter ?).

Mais Supiot ne se limite pas à l’inhumanité de la machine : « A ce modèle physique de l’horloge, qui conduisait à voir dans l’homme lui-même une machine, s’est ajouté au XIXe siècle le modèle biologique de la sélection naturelle qui a inspiré le darwinisme social et continue de sévir sous les espèces de l’ultralibéralisme et de la compétition de tous contre tous. » (p .41)

Cette volonté mécanique (ou mécaniciste) de dominer le monde par la machine prendra un essor tout à fait extraordinaire au début du XXe siècle dans un mouvement dont Supiot souligne la convergence paradoxale, voire incestueuse, entre le taylorisme (vite perfectionné par le fordisme) et bolchévisme. Supiot : « Cette fascination pour la rationalisation technique du travail a dominé la gauche depuis un siècle et constitué un socle idéologique partagé avec la droite libérale. Non seulement elle a majoritairement adhéré à  cet imaginaire de l’homme automate et à la pseudo-rationalisation technoscientifique du travail, mais encore elle a fait sien le projet d’extension à la société toute entière du modèle de gouvernement de l’entreprise. Lénine voyait dans son Que faire le taylorisme « un immense progrès de la science » et la Révolution bolchévique aurait selon lui atteint son but le jour où « la société tout entière ne sera plus qu’un seul bureau, un seul atelier ». » (p. 42)

De la théorie à la pratique, il suffit parfois – à l’échelle historique – d’un saut de puce pour que les contraires se rejoignent. Dès la fin des années 1920, d’affreux gauchistes rentrant de Moscou commencèrent à hurler à la trahison. Ce fut, parmi les tout premiers, le cas de Panaït Istrati qui dans Vers l’autre Flamme (1929 !) clama sa déconvenue et perdit dans l’aventure la confiance de ses amis, y compris Romain Roland.

Pour Alain Supiot, le point de départ de la rencontre, des épousailles, de l’amour fusionnel, du capitalisme et du communisme remonte à 1979. L’URSS est déjà à cette date-là vermoulue, un Brejnev vieillissant cherchant un exutoire à son incompétence en sautant sur l’Afghanistan. Les Occidentaux sont quant à eux en pleine forme : ils viennent, pensent-ils, de découvrir au Chili l’efficacité de l’ultra libéralisme façon dictature militaire pour contrer le premier choc pétrolier. On était en 1973 et les gnomes de Chicago coachés par Henry Kissinger, le secrétaire d’Etat de Nixon et, surtout, Milton Friedman le calamiteux économiste. Or il se trouve qu’en 1979, alors que Margaret Thatcher portait haut le drapeau ultralibéral brandi par Nixon et Kissinger et que Ronald Reagan s’apprêtait à le ressaisir, le monde apprend qu’après la mort de Zhou Enlai et celle de Mao Zedong, la Chine s’est donné un nouveau patron : Deng Xiaoping qui prend le contrôle du parti communiste chinois fin 1978. A peine installé, Deng Xiaoping, 74 ans, ne perd pas de temps et annonce que l’avenir d’une Chine martyrisée par 30 ans de maoïsme dépendra de la réussite de son programme fondé sur les « quatre modernisations » dans l’agriculture, l’industrie, les sciences et la défense nationale. Mais pas question de développer la démocratie. En Occident personne ne prend garde à ce changement de régime tant les virages politiques chinois ont été nombreux depuis la victoire de Mao et pourtant c’est bel et bien la ligne Deng Xiaoping qui triomphe aujourd’hui, dans une pure dictature, mais sans saut en avant meurtrier, sans famines, sans effroyables révolutions culturelles. En Suisse par contre, le parti radical hume l’air du temps et après avoir mâté la classe ouvrière en 1973-74 par des licenciements et des baisses de salaire massifs, il se fait en 1979 le chantre du « moins d’Etat ».

Ces multiples victoires des ultra-libéraux annoncent ce qu’Alain Supiot nomme « la gouvernance par les nombres » soit le gouvernement par « objectifs » à la place du « rule of law », du règne de la Loi qui dominait depuis l’Antiquité grecque. Nous sommes aujourd’hui soumis à une mondialisation totalitaire, à ô surprise ! une dictature sino-américaine au sommet à laquelle tout le monde se plie. « Cet asservissement a pris la forme d’une gouvernance par les nombres qui s’étend à tous les échelons de l’organisation de la société, depuis la relation individuelle de travail jusqu’aux mesures d’ajustement structurel promues au niveau européen ou international. »

Supiot survole l’histoire de l’Occident pour situer sa problématique, pour préparer le terrain afin d’asseoir solidement ses hypothèses.

Et s’il commence par surprendre le lecteur en lui jetant au visage l’inhumanité de l’ultralibéralisme et de ses chiffres abstrais et abscons (voir l’affaire Serviel), la similitude de la démarche avec l’actuelle dictature capitalistico-communiste chinoise nous renvoie (mais avec quel choc) au heurt des monstres de l’aube radieuse du XXe siècle : le communisme bolchévique et le taylorisme (bientôt perfectionné par le fordisme).

Supiot s’expliquant dans la quatrième page de couverture : « Le sentiment de malaise dans la civilisation n’est pas nouveau, mais il a retrouvé aujourd’hui en Europe une intensité sans précédent depuis la Seconde Guerre mondiale. La saturation de l’espace public par des discours économiques et identitaires est le symptôme d’une crise dont les causes profondes sont institutionnelles. La Loi, la démocratie, l’Etat, et tous les cadres juridiques auxquels nous continuons de nous référer, sont bousculés par la résurgence du vieux rêve occidental d’une harmonie fondée sur le calcul. Réactif d’abord par le taylorisme et la planification soviétique, ce projet scientiste prend aujourd’hui la forme d’une gouvernance par les nombres, qui se déploie sous l’égide de la «globalisation ». La raison du pouvoir n’est plus recherchée dans une instance souveraine transcendant la société, mais dans des normes inhérentes à son bon fonctionnement. Prospère sur ces bases un nouvel idéal normatif, qui vise la réalisation efficace d’objectifs mesurables plutôt que l’obéissance a des lois justes. Porte par la révolution numérique, ce nouvel imaginaire institutionnel est celui d’une société ou la loi cède la place au programme et la réglementation a la régulation. Mais des lors que leur sécurité n’est pas garantie par une loi s’appliquant également à tous, les hommes n’ont plus d’autre issue que de faire allégeance à plus fort qu’eux. Radicalisant l’aspiration à un pouvoir impersonnel, qui caractérisait déjà l’affirmation du règne de la loi, la gouvernance par les nombres donne ainsi paradoxalement le jour à un monde domine par les liens d’allégeance qui, par un sinistre paradoxe, nous renvoient au moyen âge. »

Pour conclure sur une boutade, disons que le saut quantitatif privilégié par la recherche et la seule valorisation des nombres met à mal l’idéal de sa transformation en ce saut qualitatif si vanté autrefois par la vulgate marxiste. Au contraire. L’ultralibéralisme (L’auteur parle même d’anarcholibéralisme !) n’a qu’un idéal, le pognon. La truanderie mondialisée qui nous gouverne se fiche complètement de la qualité.

Extraits

Le propre de l’ultralibéralisme – ce qui le rapproche du marxisme et le distingue radicalement du libéralisme à l’ancienne – consiste à envisager la loi et le droit non plus comme les cadres stables de la vie en société, mais comme de purs instruments, comme des produits. D’où l’utopie d’un monde plat, où la loi n’est plus une « reine » occupant une position en surplomb, mais un ustensile, jaugé à son efficacité. Dès lors qu’on admet que le droit est un produit, son élaboration relève d’un savoir technique et non pas politique. Dans un entretien qu’il a accordé à la fin de son mandat de Directeur de la Banque centrale européenne, M. Trichet, après avoir longuement détaillé les réformes, selon lui urgentes, de privatisation des services publics et de déréglementation des marchés du travail, insistait sur le fait qu’il ne s’agissait pas d’un programme politique, mais de mesures techniques correspondant à l’intérêt supérieur des « dix-sept gouvernements, des trois-cent trente-deux millions de citoyens, de toutes sensibilités » dont il estimait avoir la charge.(cf. : Le Monde diplomatique, nov. 2011) Une fois admis que le droit est un outil technique, il doit comme tout produit être soumis à une concurrence mondiale sur un marché des normes, qui sélectionne les plus aptes à répondre aux besoins de l’économie. Le law shopping tend à occuper la place du rule of laws, notamment dans ces domaines clés pour l’Etat social que sont le droit au travail, le droit fiscal et le droit de la sécurité sociale. (p. 172)

La flexibilisation s’était cantonnée jusqu’à maintenant aux dispositions légales et conventionnelles. Elle a été étendue aux contrats individuels de travail par des réformes récentes qui permettent de recourir à des accords d’entreprise pour baisser les salaires ou imposer une mobilité géographique. Se dessine ainsi un nouveau type de lien de droit qui, à la différence du contrat, n’a pas pour objet une quantité de travail, mesurée en temps et en argent, mais la personne même du travailleur. Sa réactivité et sa flexibilité étant incompatible avec la force obligatoire du contrat, il est inévitable de le priver d’une partie de ses attributs de contractant. L’avènement de ce sujet programmé fait surgir un risque ignoré des précédentes révolutions industrielles: celui d’atteinte à la santé mentale. (…) Des cas de suicides sur les lieux de travail ont commencé à être rapportés par les médecins du travail vers la fin des années 1990. (p. 256)

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A la librairie française Kyralina de Bucarest…

 

… vous pouvez trouver un choix magnifique de la production littéraire française dans sa diversité la plus tentante : romans, essais, BD, littérature enfantine, etc.

La semaine dernière j’eus la chance de pouvoir y présenter mon Les Douanes de l’âme (Ed. L’Aire, Vevey, Suisse) un recueil d’articles et de proses publiés depuis une quinzaine d’années. J’y parle entre autres d’histoires dévoilant les origines byroniennes de Dracula ou celles de l’inspirateur transylvain d’Hergé pour marcher sur la lune et de Werner von Braun pour raser Londres à coups de V2. Je m’attarde sur les ressemblances dans l’organisation sociale des Suisse et des Saxons de Transylvanie, des Saxons qui quittèrent en masse le pays à la chute de Ceauşescu laissant à l’abandon maisons, terres et vignobles. La littérature tient aussi une place de choix dans le volume avec des textes sur Miklós Bánffy l’aristocrate hongrois de Cluj, Paul Celan le poète juif de Czernovitz, Herta Müller, la Souabe du Banat… Bref une douzaine de chroniques de chroniques donnent autant d’éclairages sur la Roumanie, mais aussi sur le Banat, la Bucovine ou les Sicules.

Rotberg / Rosia (SB)Eglise de Rothberg, près de Sibiu dans les Siebenbürgen

A propos des Sicules, le peuple maghiarisant aux origines encore inconnues installé dans les Carpates orientales à la frontière entre la Transylvanie et la Moldavie, la librairie Kyralina diffuse un ouvrage magnifique tant par le sérieux des recherches que par la qualité des 515 ( !) illustrations, ses index et commentaires. Edité en français à Cluj en Transylvanie par Risoprint l’année dernière, « Les églises fortifiées du pays des Sicules » est avec ses descriptions d’églises, leurs notices architecturales, leurs photos, un pur chef d’œuvre d’architecture religieuse. A la gloire d’un peuple européen méconnu et mystérieux. Son auteur, Hubert Rossel, vit à Yvonand, en Suisse romande.

Librairie française Kyralina, 10 Strada Biserica Amzei, Bucarest

http://www.kyralina.ro/shop/

 http://eglises-fortifiees-sicules.prossel.net/

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Français: Eglises fortifiées sicules_Résumé_livre (FR)

Hongrois: Eglises fortifiées sicules_Résumé_livre (H) Székelyföldi erödített templomok.pdf

Roumain: Eglises fortifiées sicules_Résumé_livre (RO) Bisericile fortificate din Tinutul Secuiesc.pdf

 

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Les horloges de Timişoara

 La ville roumaine de Timişoara vient d’être désignée comme capitale européenne de la culture pour l’année 2021. Elle suit en cela l’exemple de Sibiu qui le fut en 2007 pour célébrer l’entrée du pays dans l’Union européenne. J’avais alors écrit un texte publié dans le volume collectif L’Europe au cœur publié par Jacques Pilet aux éditions Favre à Lausanne. La désignation de Timişoara me donne l’occasion de le republier.

Il n’y avait aucune possibilité de m’identifier à mon père qui était juif, ni à ma mère catholique qui était antisémite, ni à l’Autriche où je suis né, ni à la Suisse, le pays où je me suis réfugié, parce qu’on ne devient jamais suisse, on y reste toujours un étranger. (André Gorz)

Mettons que la scène aurait pu se passer l’été dernier. Attablé avec des amis sur une des terrasses qui bordent la Piaţa Unirii à Timişoara, je regardais songeur cette vaste place herbeuse entourée d’immeubles baroques. Sa majesté devait beaucoup à un aspect suranné, à une grandeur révolue. J’avais eu autrefois, toutes proportions gardées, la même impression à Ernen dans le Haut-Valais en admirant des maisons patriciennes plantées dans l’herbe.

Peter, le seul d’entre nous à être natif du lieu, nous avait brièvement résumé l’histoire de sa ville qu’une sinistre imposture avait projetée de manière douteuse à la une de la presse mondiale en décembre 1989. Les photos d’une vingtaine de prétendues victimes de la Révolution avaient fait le tour du monde, alors qu’il s’agissait de cadavres extraits qui d’une fosse commune qui de la morgue municipale. S’il fallait de l’audace et du courage à ce moment-là pour soutenir l’action du pasteur László Tökés, l’initiateur de la révolte anticommuniste devenu aujourd’hui leader des franges les plus chauvines et les plus obtuses de l’irrédentisme magyar, il n’était nul besoin de telle mise en scène macabre pour fouetter les énergies.

– Timişoara, nous disait-il, est une des principales villes surgies dans l’antique Pannonie qui fut un carrefour des grandes migrations à la chute de l’empire romain avant d’être assujettie à la couronne hongroise au Moyen Age. Conquise par les Ottomans, la région somnola pendant près de deux cents ans avant que le prince Eugène de Savoie ne la reporte dans l’orbite impériale et la propulse dans la modernité. Le gouverneur autrichien ne se contenta pas de favoriser le développement des affaires et du commerce, il sut aussi donner un relief austro-baroque à la place où nous nous trouvons. Ces bâtiments ont été construits vers 1750 sur la lancée d’une prospérité retrouvée. Là sur la gauche, il y a le lycée, de l’autre côté, ces immeubles décrépits furent de somptueuses demeures bourgeoises. L’église en face est la cathédrale catholique romaine. N’a-elle pas belle allure avec sa façade ocre surmontée de deux tours ornées chacune d’une horloge ? Et, derrière nous, la cathédrale orthodoxe serbe, avec ses deux flèches elles aussi munies d’horloges. On dirait que les églises orientées vers le levant se tournent le dos, mais les horloges se font face. Affichant chacune une heure différente, elles donnent l’impression de se dévisager. Lycéen, j’y voyais déjà un beau symbole de multiculturalité. Dans cette ville où les Roumains ne sont devenus majoritaires qu’au XXe siècle vivent aussi de nombreux Serbes et Hongrois. Il reste encore quelques familles allemandes, et même slovaques, descendant de colons engagés par les Autrichiens pour relever une contrée que les Turcs avaient laisser végéter. On y entend une demi-douzaine de langues, on y pratique autant de religions, mais regardez, à part les églises, les maisons sont dans un état pitoyable, les communistes n’ont jamais dépensé un sou pour leur entretien…

Excité par le fait de se retrouver dans cette ville, sa ville, si longtemps après l’avoir quittée pour s’installer à Stuttgart, Peter s’apprêtait à se lancer dans ses habituelles récriminations contre le régime qui avait bousillé sa jeunesse. Connaissant la rengaine, Anna, sa femme allemande, se hâta de l’interrompre :

– Pourquoi voyais-tu un symbole dans ces horloges ?

– Dans ma jeunesse déjà, elles marquaient une heure différente. C’est typique du bordel qui règne dans ce pays depuis la nuit des temps. Jamais en Allemagne ou en Suisse, tu ne verrais une chose semblable. Comment vivre si les horloges indiquent des heures différentes, si une convention si élémentaire n’est pas partagée par tout le monde ?

Piquée à vif par la critique, Sanda la Bucarestoise ne put s’empêcher de lui faire remarquer que la grande pagaille roumaine n’était que l’héritage de gouvernants incapables de faire régner un ordre autre que policier. Esquissant un sourire ironique, Peter la renvoya aux récits des voyageurs d’avant-guerre :

– Tu oublies que Paul Morand n’avait pas de mots assez durs pour décrire la saleté de ton « Petit Paris » déjà hanté dans les années 1930 par des hordes de chiens errants. « Comme à Istanbul », disait-il. A l’époque, les visiteurs étaient frappés par un laisser-aller déroutant, une nonchalance, une indolence qui les amenait à se demander s’ils étaient encore en Europe ou déjà en Orient. Les communistes avec leur génie destructeur n’ont fait qu’aggraver ce travers en accentuant des traits préexistants. D’ailleurs, ils ont fait la même chose avec leur politique des nationalités. La position de ces deux belles églises baroques construites en même temps sur la même place symbolise pour moi la manière que nous avons de vivre ensemble. Imbriqués, entremêlés, enlacés parfois, mais, aussi, étrangers les uns aux autres, si souvent appliqués à tout ignorer du voisin de palier parlant une autre langue…

Je ne pouvais pas laisser passer une telle affirmation.

– Peter, tu exagères ! J’ai parcouru le Banat et la Transylvanie dans tous les sens. Si je fais abstraction des Allemands qui ont presque totalement disparu après la chute de Ceauşescu, abandonnant des dizaines de villages qui sont aujourd’hui en ruines, il me semble que la multiculturalité est ici plus vivace qu’en Suisse. Chez nous qui sommes si fiers de nos trois langues officielles, chacun reste chez soi, dans des espaces immuablement définis depuis des siècles. Pas de mélange, ni même de cohabitation. Les Alémaniques sont d’un côté de la Sarine, les Romands de l’autre et les Tessinois au-delà des montagnes. La répartition est homogène. C’est pour cela que le modèle suisse est sans cesse cité en exemple par les fédéralistes européens. Il représenterait une garantie de survie pour les nations qui, tout en acceptant une superstructure politique continentale, tiennent à conserver leurs caractéristiques propres. S’il s’agit de ménager une période de transition, le calcul n’est pas faux : après 150 ans d’intégration fédérale, les réalités cantonales subsistent encore au-delà du raisonnable. Rien de semblable en Roumanie. Dès que je suis sorti de Timişoara pour gagner les rives du Danube, j’ai traversé des villages roumains, hongrois, serbes, et d’autres encore qui furent allemands. J’ai visité des monastères serbes et roumains, des églises protestantes. Pour autant que je puisse en juger, tout le monde a l’air de trouver sa place dans cette vaste mosaïque ethnique.

– Pas du tout ! Tu es victime d’une illusion, ces populations ne sont pas solidaires. Elles se supportent parce que l’histoire les a juxtaposées. Ecoute-moi bien : après la guerre, nous les Allemands de Roumanie, nous avons été déportés en masse vers la Sibérie et l’Asie centrale. Parce que, prétendaient les communistes, nous avions massivement soutenu les nazis. Or les Roumains, comment avaient-ils agi ? Ils ont fait comme les nazis et participé à l’extermination des Juifs en les déportant en Transnistrie. A Stalingrad, ils étaient aux côtés de l’armée allemande contre les Soviétiques. Le moins qu’on puisse dire est que les responsabilités étaient partagées ! Ce n’est pas tout. Une fois que nous fûmes libérés et rentrés au pays, sais-tu ce qui nous est arrivé ? Ils nous ont vendus au gouvernement allemand, comme ils ont vendu les Juifs à Israël et comme ils ont vendu les Roumains à qui avait les moyens de les payer. Le prix de chaque individu dépendait de son niveau de formation et pouvait atteindre les trente mille dollars. Cet Etat vendait ses propres citoyens !

Comme nous nous levions pour aller visiter les ruelles de la vieille ville, Sanda remarqua :

– Notre entrée dans l’Union européenne devrait aussi nous éviter le renouvellement de tels drames, pas seulement élever notre niveau de vie. Qu’en penses-tu toi l’Helvète ?

Que pouvais-je en penser ?

Pour Anna, l’Allemande née pendant la guerre, l’Europe allait de soi, même s’il y avait une facture à payer. De toute manière, après le désastre nazi, les factures n’avaient pas manqué. Il n’y en a qu’une qui lui soit restée en travers de la gorge, c’est le coût exorbitant de la réunification, ces milliards jetés sans réflexion ni études préalables dans les caisses des financiers et des entrepreneurs de Munich, Francfort ou Hambourg, alors que les populations de la RDA se voyaient offrir quelques hochets ridicules et le chômage de masse pour solde de tout compte après cinquante ans de dictature stalinienne. Il y avait certainement mieux à faire qu’associer le retour à la liberté avec la destruction des infrastructures industrielles et des rapports sociaux de la défunte république démocratique. Quoi qu’il en soit, l’Europe restait pour elle garante de la réconciliation des Allemands avec leurs victimes. Aujourd’hui plus que jamais, alors que certains nationalistes polonais tentent de remettre en cause les acquis pacifiques de l’après-guerre.

Peter est dans les grandes lignes d’accord avec sa femme sur l’importance historique de la construction européenne, sur la garantie de paix qu’elle représente, mais avec une grande réserve due à ses origines souabes du Banat : le manque de solidarité européenne avec les Etats soumis à l’Union Soviétique pendant les années 1970-1980. Selon lui, la guerre froide et l’équilibre de la terreur n’expliquent pas tout. Il ne va pas jusqu’à accuser les deux blocs de complicité, mais au moins de connivence. En témoigne l’incompréhensible et long engouement de l’Europe occidentale pour le sinistre Ceauşescu. Ou bien, dans un autre sens, la facilité avec laquelle, le 29 mai 1987, le jeune Mathias Rust, déjouant tous les contrôles de la défense antiaérienne soviétique, est allé poser son petit avion sur la place Rouge. Une telle passoire méritait-elle tant d’égards ?

Où en suis-je donc avec cette histoire qui avance à grands pas ? La conscience européenne m’est si constitutive que je ne me pose quasiment jamais la question. Pas plus que je ne me demande pourquoi je suis homme plutôt que papillon ou mulet. Pour reprendre une de ces expressions à la mode que je n’aime pas, ma « taille critique » est européenne. Citoyen du monde, c’est trop abstrait. Adolescent, j’aimais bien Gary Davis qui, justement, se voulait citoyen du monde et parcourait la planète en brandissant un drapeau blanc ; mais son engagement paraissait plus pathétique et sentimental qu’idéaliste. D’un autre côté, Valaisan, cela fait un peu court, étroit, coincé entre des chaînes de montagnes. Surtout pour un jeune homme désireux de croquer le monde à pleines dents. Mon certificat d’études secondaires dans la poche, je partis – cela allait alors de soi – perfectionner mon allemand à Cologne. J’arrivai dans une gare qui ne tenait que par des étais et restai ébahi devant les amoncellements de ruines qui encombraient le centre-ville. C’était en été 1957. Promesse de paix et de réconciliation, l’Europe des Six existait depuis trois mois. Depuis elle grandit, mûrit, prit du poids. Moi aussi.

La fréquentation de l’histoire m’a enseigné que l’esprit des peuples est souvent fantasque, imprévisible, parfois contradictoire. Mais que les Suisses soient à ce point anti-européens ne cessera de me surprendre. Il me semble au contraire que, comme appendices de trois grandes cultures de l’Europe occidentale, nous ne pouvons qu’être européens dans le sens politique du terme. C’est-à-dire partisan d’une mise en commun institutionnelle de la très grande majorité des attributs de l’Etat-nation. C’est cette mise en commun qui a permis autrefois à nos micro-Etats cantonaux de donner naissance à l’Etat fédéral. Cet Etat a certes souvent succombé à l’autoritarisme, au militarisme, voire à la xénophobie ou au racisme mais n’a jamais pu, faute de sentiment national, cristalliser ces dérives droitières en nationalisme agressif. Or c’est au nom d’un prétendu sentiment national que mes compatriotes votent en majorité contre tout ce qui porte l’étiquette européenne. Quelle absurdité !

Comme notre petit groupe s’arrêtait pour photographier l’enseigne du Deutsches Staatstheater Timişoara et commenter l’affiche du spectacle en cours de représentation, L’Opéra de quat’sous de Brecht, Sanda passa son bras sous le mien et me demanda avec douceur :

– Pourquoi n’as-tu pas répondu à ma question ? Je te vois bien pensif, serais-tu déçu par la position de ton pays qui persiste à se tenir en marge ?

– Déçu ? Le mot est faible. C’est la honte qui me submerge, surtout quand je compare notre égoïsme intéressé aux avanies que vous avez subies dans le passé.

– Mais tes compatriotes ont peut-être raison, vous avez une vieille tradition de neutralité qui vous a évité les ennuis et apporté la prospérité. Pourquoi y renoncer si, contrairement à nous, vous n’avez pas besoin de l’Europe ?

– C’est bien là le problème ! Notre prospérité vient justement de l’Europe. Il est vrai que nous avons beaucoup travaillé pour la développer, mais sans nos voisins, nous ne serions rien. Notre neutralité a toujours été fictive. Je pense que lorsqu’on a beaucoup reçu, on doit aussi donner, que ce n’est que justice. L’histoire et la géographie nous prédestinent à être Européens, je l’ai appris depuis tout petit. Enfant, j’ai connu l’émigration. Rien de comparable aux traumatismes engendrés par l’exil, par le passage forcé et violent d’une culture à une autre. Mais j’ai vécu une rupture tout de même, j’ai reçu une de ces balafres spirituelles qui cicatrisent en surface sans jamais s’effacer tout à fait. Après une petite enfance dans un village valaisan haut perché, je me suis retrouvé dans une bourgade industrielle du Jura vaudois. La vie quotidienne n’y était plus rythmée par l’angélus mais par le hurlement des sirènes appelant les ouvriers au travail. Mon accent chantant déclenchait les quolibets de mes camarades. Le fait que pendant les leçons d’histoire biblique, le catholique que j’étais se retirait au fond de la classe me singularisait. Je fis ainsi très jeune l’expérience de la différence. Sur la carte – et rapportée à nos grands voisins – la distance entre les deux lieux est ridicule, quelques dizaines de kilomètres, elle sépare pourtant deux mondes.

– C’est la richesse de votre système fédéraliste. Chez nous, tout est fait pour gommer les différences, on ne conçoit l’Etat que comme centralisé sur le modèle français. Cela empêche les membres des autres communautés de se sentir roumains. Prends par exemple les Hongrois de Transylvanie, il ne viendrait à l’esprit de personne de les appeler Roumains d’origine hongroise alors qu’ils sont citoyens roumains depuis 1918 ! Pis même, depuis que les élections sont libres, ils votent toujours en bloc pour le parti magyar qui fonctionne sur des bases ethniques, sans prendre en compte les réalités sociales ou économiques. Cette logique est délétère, pourtant personne ne se préoccupe de la casser…

– C’est vrai, il est important d’admettre les différences au sein d’une société. Le paradoxe tient peut-être au fait que chez vous elles sont omniprésentes et marquées par un antagonisme virulent ancré dans une vieille histoire commune si je pense aux Hongrois ou aux Tsiganes. Chez nous, avant que l’on fasse appel à une immigration massive de travailleurs, il n’en alla pas de même. Pour ma part, si j’ai tôt saisi les différences de culture, c’est parce que la petite ville de mon enfance était à la frontière. Au milieu des années cinquante, j’étais à mes moments de liberté pompiste dans une station d’essence située en face de la douane. L’Europe venait à moi sous les traits de toutes sortes de touristes, en général assez aisés, car la voiture coûtait encore cher. Comme mon patron vendait aussi des souvenirs et du chocolat, le chaland s’arrêtait, on échangeait quelques mots. J’appris vite à reconnaître la personnalité de ces clients, leur curiosité, leur sens de l’humour ou leur générosité pour constater qu’ils ne m’étaient pas plus étrangers que mes compatriotes. Cela me donna envie d’aller voir ailleurs. Ainsi abolie, la frontière perd son aura mythique. Il n’y a plus de limite : Suisses, Français, Italiens, quelle importance ?

– Il n’empêche que les différences demeurent.

Nous avions quitté le théâtre allemand pour nous diriger vers la cathédrale orthodoxe de rite roumain, monument massif et prétentieux achevé à la fin des années 1930. A l’entrée, une notice signalait que les architectes avaient réussi le tour de force de rappeler dans l’édifice tous les styles des pays roumains, l’ensemble se voulant néo-byzantin. Peter ne put s’empêcher de rompre une lance contre ce symbole sans grâce de la Grande Roumanie triomphante :

– En cinq minutes nous sommes passés d’un monde à l’autre. Alors que Piaţa Unirii n’était qu’harmonie, équilibre entre les différents acteurs de la cité, hymne à la coexistence de diverses cultures, cette cathédrale a été conçue pour glorifier la victoire de la roumanité plus que la gloire du Seigneur. Alors que la spiritualité orthodoxe a recherché au fil des siècles le calme et l’intimité d’églises minuscules pour s’exprimer, les nationalistes de l’entre-deux-guerres montraient leur petitesse en pensant obtenir les faveurs de Dieu par la construction de monuments gigantesques.

Quittant l’église avec un sentiment de déception tout à fait prévisible, nous tombâmes d’accord pour dire que si cette partie du continent avait été ancrée à la culture européenne, elle en était redevable à l’éclat du Siècle des Lumières, pas aux convulsions de l’âge des nationalités. J’opinai avec d’autant plus de conviction que la Suisse connut elle aussi un engouement européen à cette époque-là. Mais, alors que mes amis roumains s’apprêtent, dès janvier 2007, à prendre leur place dans l’Union européenne, je vais devoir pour ma part continuer de ferrailler contre ces jumeaux diaboliques que sont l’Alleingang et le Sonderfall. Triste perspective.                        (©Gérard Delaloye, octobre 2006)

 

 

 

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En participant au coup d’Etat fasciste de janvier 1941, Cioran espérait devenir attaché culturel roumain à Paris

Début juillet, je terminai mon article sur les relations entre Cioran et le poète Paul Celan par ce constat : Celan apprit en 1967 que Cioran était bel et bien à Bucarest en janvier 1941 lors de la rébellion légionnaire. Bouleversé, il rompit alors toutes relations avec Cioran. Et j’ajoutais :

Il serait vraiment intéressant de savoir ce que ce dernier [Cioran] faisait à cette date dans une capitale [Bucarest] en proie à de violentes convulsions fascistes. La lecture suivie et intégrale des Cahiers [de Cioran (1000 pages) publiés chez Gallimard] laisse transparaître un malaise existentiel de leur auteur comme s’il était porteur d’une faute inexpiable…

L’été m’a porté conseil. Ou, disons, de bonnes lectures ont complété mon information. A commencer par le pathétique Journal (1935-1944) de Mihail Sebastian (traduction d’Alain Paruit, Stock, Paris, 1998) et d’autres ouvrages historiques sur l’avant-guerre non traduits. Sebastian est un romancier et dramaturge juif apolitique collègue et ami, entre autres, d’Emile Cioran et de Mircea Eliade qui eux étaient à ce moment-là fascistes et antisémites forcenés, partisans et militants du mouvement légionnaire (Garde de Fer) de Corneliu Zelea Codreanu, puis après l’assassinat de ce dernier, de Horia Sima. Les années 1938, 39 et 40 furent explosives pour la Roumanie. Fin 1938, Codreanu et plusieurs dizaines de dirigeants légionnaires sont assassinés sur ordre du roi Carol II qui avait proclamé sa dictature et interdit les partis politiques en début d’année. Les légionnaires désormais dirigés par Sima mettent une année pour préparer leur vengeance. Elle sera abominable : en automne 1939, l’assassinat du premier ministre Armand Călinescu, est suivi par celui d’un immense historien et homme politique Nicolae Iorga et d’un autre leader politique de droite. En 1940 la pression légionnaire s’accentue et à la fin de l’été suite à l’abdication forcée du roi Carol et à la nomination du général Antonescu à la tête du gouvernement, Horia Sima et les légionnaires estiment que leur heure a sonné et préparent leur coup d’Etat. Mis au courant de la situation, Cioran saute dès décembre 1940 dans un train pour aller à la soupe. On lui fait miroiter un poste alléchant : attaché culturel à l’ambassade de Paris. Voici comment son ami Sebastian présente les événements :

Jeudi, 2 janvier 1941 : Je rencontre Cioran dans la rue, ce matin. Il est radieux :

– On m’a nommé. Attaché culturel à Paris.

– Tu comprends, me dit-il, si on ne m’avait pas nommé, si j’étais resté là, j’aurais dû partir comme réserviste. J’ai reçu l’ordre aujourd’hui même. Je ne voulais d’ailleurs pas me présenter. Alors, comme ça tout est réglé. Tu comprends ?

Je comprends, bien sûr, mon cher Cioran. Je ne veux pas être méchant avec lui (et surtout pas ici – cela servirait à quoi ?). Il est un cas intéressant. Il est même plus qu’un cas : il est un homme intéressant, remarquablement intelligent, sans préjugés, qui réunit de façon amusante une double dose de cynisme et de lâcheté. J’aurais dû consigner – elles en valaient la peine – les deux longues conversations que j’ai eues avec lui en décembre. (p. 267)

(Sous la plume de Sébastian la réunion amusante d’une double dose de cynisme et de lâcheté montre hélas une surprenante mansuétude pour un homme qui avait récemment commis un virulent réquisitoire antisémite dans sa Transfiguration de la Roumanie. – GD)

Samedi 25 janvier 1941: Cioran déclarait hier à Belu [frère de Sebastian]

que « la légion se torchait avec ce pays ». C’est à peu près ce que me disait Mircea [Eliade] au moment de la répression Călinescu : « La Roumanie ne mérite pas le mouvement légionnaire ». A cette époque-là rien ne l’aurait satisfait, sauf la disparition du pays.

(p. 276, au lendemain de la tentative de coup d’Etat de la légion doublée d’un grand pogrom qui ensanglanta la capitale. – GD)

 

Mercredi 12 février : La première de l’Iphigénie de Mircea Eliade au Naţional. Je n’y suis pas allé, cela va de soi. Il me serait impossible de ma montrer à n’importe quelle première, à plus forte raison à une qui a fatalement dû être (l’auteur, les interprètes, le sujet, le public) une espèce de rassemblement légionnaire.

Cioran, bien qu’il ait participé à la rébellion, garde sa place d’attaché culturel à Paris, que lui a donnée Sima [chef des légionnaires] quelques jours avant d’être renversé. Le nouveau régime augmente son salaire ! Il va partir dans quelques jours. Parlez-moi d’une révolution !

(p. 288. Le nouveau régime est celui du général Ion Antonescu, dictateur, allié fidèle d’Hitler, grand massacreur antisémite, qui règnera jusqu’au 23 août 1944 quand, fort de l’invasion et du soutien soviétique, le roi Michel le fera arrêter. Antonescu sera exécuté deux ans plus tard. – GD)

 

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Emil Cioran et Paul Celan, poètes désespérés des marges roumaines

Emil Cioran, austro-hongrois à sa naissance en 1911, devenu roumain en 1918, s’installa comme boursier à Paris en 1937 et y vécut jusqu’à sa mort en 1995 sans jamais demander la nationalité française. Un peu à la manière de ces étudiants éternels qui, autrefois, profitant de libertés académiques aujourd’hui défuntes et bien oubliées, papillonnaient d’une faculté à l’autre. Il était fils d’un pope orthodoxe et de langue roumaine.

Paul Celan, lui, est né en 1920 dans une famille juive de langue allemande en Bucovine ex-austro-hongroise, roumaine elle aussi comme la Transylvanie depuis 1918. En 1944, l’avancée victorieuse des troupes soviétiques lui permit de gagner Bucarest, capitale de cette Roumanie dont il possédait la nationalité. Avec un objectif, fuir à Paris ce qu’il fit en 1947. Il y vivra jusqu’à son suicide en 1970.

Tous deux sont donc issus des marges de la Grande Roumanie que les Puissances créèrent à la surprise générale après la Première Guerre mondiale par le démembrement de la Cacanie décrite par Musil. Etat composite, mosaïque de minorités aux langues et religions diverses, la Roumanie bien que privée aujourd’hui de la Bessarabie et d’une grande partie de la Bucovine célèbrera dans deux ans le premier centenaire de cette unification réussie malgré quelques accrocs et une vie politique (dont de sinistres dictatures !) trop souvent dramatique.

Frappé par leur fréquence, j’ai décidé de noter les références à Celan dans les Cahiers de Cioran et j’ai peu à peu réalisé que ces deux grands artistes – sculpteurs de la chose écrite – voués l’un et l’autre à un désespoir vertigineux – se situent à des pôles radicalement opposés du monde roumain d’avant la dictature soviétique. Le jeune Cioran occupe une place importante dans la Roumanie des années 1930 comme chantre de l’idéologie nationaliste, antisémite, fasciste de la Garde de Fer, notamment dans l’essai Transfiguration de la Roumanie publié à Bucarest en 1936 (traduction française d’Alain Paruit, L’Herne, Paris, 2009) alors que l’auteur avait vingt-cinq ans. Peu après le jeune essayiste quittait son pays pour la capitale française.

A l’âge de 25 ans, en 1945, Paul Celan, à peine libéré d’un camp de travail, était à Bucarest et composait son premier poème important, Todesfuge, (Fugue de mort) qui sur une intonation musicale funèbre revenant telle un refrain pleurait la destruction des Juifs :

Schwarze Milch der Frühe wir trinken sie abends/

wir trinken sie mittags und morgens wir trinken sie nachts/

wir trinken und trinken…

Lait noir de l’aube nous le buvons le soir/

le buvons à midi et le matin nous le buvons la nuit/

nous buvons et buvons… (Trad. J.-P. Lefebre)

Après l’avoir composé, Celan n’avait pas où publier ce poème, aussi un de ses amis, Petre Solomon, se chargea-t-il de le traduire en roumain sous le titre de Tangoului morţii (Tango de mort) apparut dans une revue locale le 2 mai 1947.

Revenons à Cioran. Une fois installé à Paris en 1937, il prétendit toujours par la suite n’avoir jamais remis les pieds dans son pays d’origine. Or c’est faux. Selon divers témoignages (dont celui de sa compagne Simone Broué), il était à Bucarest en janvier 1941. La date n’est pas anodine car c’est en janvier 1941 que les légionnaires de la Garde de fer tentèrent un coup d’Etat pour éliminer le général Antonescu et prendre le pouvoir à sa place. La tentative fit long feu, l’Allemagne prenant la défense d’Antonescu allié préféré d’Hitler. Les légionnaires cessèrent le feu au bout de deux jours, laissant près de 400 des leurs et 2000 civils sur le macadam. Parallèlement un pogrom antijuif au centre de la capitale entraîna le massacre de 120 personnes. Que faisait Cioran à Bucarest ces jours-là ? Je n’en sais rien, n’ayant pas encore trouvé la réponse si elle existe. Le fait est qu’il s’en retourna prestement à Paris et ne remit plus les pieds en Roumanie.

Dans le Paris d’après-guerre qui attire les intellectuels roumains comme des phalènes errantes, tout ce petit monde se connaît et se fréquente quelles que soient les divergences qui pourraient les séparer. Aussi n’est-il guère surprenant qu’en 1953 Paul Celan, l’ancien communiste de Cernăuţi, traduise en allemand le Précis de décomposition de Cioran, premier ouvrage écrit en français par l’ancien légionnaire transylvain (Lehre vom Zerfall. Übers. v. Paul Celan. Reinbek 1953). Pendant les années 50 et le début des années 60, les relations entre en Cioran et Celan, furent, semble-t-il, correctes selon les quelques indications de la chronologie Celan figurant dans le deuxième volume de correspondance entre le poète et sa femme. J’y reviendrai. Commençons par voir ce que Cioran dit de Celan dans ses Cahiers :

« Tout à l’heure, j’ai croisé P[aul] C[elan] qui, à mon salut, a tout juste répondu d’une à peine perceptible inclinaison de tête. On aurait dit avec ses airs onctueux, un évêque distant, hautain, faisant une ébauche de bénédiction pour déguiser une grimace. Pour ne pas lui en vouloir, il faut que je pense à ses malheurs (à ses malheurs qui l’ont rendu si impitoyable, si exigeant, et si féroce à l’égard de ses amis et de tout le monde). Vivement un homme heureux pour qu’on puisse le détester sans tant de façons. » (27 juillet 1968, p. 603)

« Hier soir, autour du Luxembourg, j’écoutais un ami m’expliquer la situation politique après l’échec du général. J’y prêtais une oreille plutôt distraite, quand, du côté du lycée Montaigne, j’aperçus quelqu’un qui, tête baissée, longeait le mur, riait et parlait tout seul, avec un rapide mouvement des lèvres, et tout à fait indifférent au monde extérieur. Je ne le reconnus que lorsque j’étais à un mètre de lui. J’eus un serrement de cœur et presque un accès de désespoir. Il me regarda et ne s’aperçut même pas de mon passage, bien qu’il n’y eût personne dans la rue, à cette heure tardive (il était à peu près 11 heures du soir).

Quand on sait les longs séjours qu’il a faits dans diverses maisons de santé, sa tentative de tuer sa femme et ensuite de se suicider, comment ne pas ressentir une angoisse affreuse, et les pressentiments les plus terribles et les plus légitimes ? Il y a deux ans comme je le croyais à Sainte-Anne, je l’ai rencontré après minuit rue Garancière. J’eus un saisissement très vif, et lorsqu’il vint vers moi je me demandai si ce n’était pas un fantôme.

Cette fois-ci, je suis certain qu’il est au seuil d’une nouvelle crise. Une mimique pareille, je n’en ai vu que dans les hospices d’aliénés. Un dieu foudroyé rirait ainsi. Le rire d’un être coupé de tout, sauf de ses fantasmes. A qui s’adressait-il ? quoi déclenchait tant de mobilité dans son visage ? Quand j’y songe, j’ai encore un frisson dans le dos. » (7 mai 1969, p. 719)

« 23 heures. Rencontré dans la rue Paul Celan. Nous nous sommes promenés pendant une demi-heure. Il a été exquis. » (16 juin 1969, p 742)

« Paul Celan s’est jeté dans la Seine. On a retrouvé son cadavre lundi dernier. Cet homme charmant et impossible, féroce dans les accès de douceur, que j’aimais bien et que je fuyais, par peur de le blesser, car tout le blessait. Chaque fois que je le rencontrais, j’étais sur mes gardes et je me surveillais au point qu’au bout d’une demi-heure j’étais exténué. » (7 mai 1970, p.806).

«  – Nuit atroce. Ai songé à la sage résolution de Celan. (Celan est allé jusqu’au bout, il a épuisé ses possibilités de résister à la destruction. En un certain sens, son existence n’a rien de fragmentaire ni de raté : il s’est pleinement réalisé.

Comme poète, il ne pouvait aller plus loin ; il frisait, dans ses derniers poèmes la Wortspielerei. Je ne connais pas de mort plus pathétique ni moins triste.) » (11 mai 1970, p. 807)

« Cimetière de Thiais. Enterrement de Paul Celan. Dans l’autobus, de la porte d’Italie au cimetière, la laideur de la banlieue m’a semblé si épouvantable qu’arrivé au cimetière, qui est beau, j’ai eu une sensation de délivrance. » (12 mai 1970, p.807).

« Tout à l’heure, en sortant de chez moi, au moment où je traversais la rue Racine, soudain me vint à l’esprit la tombe de Celan. Et c’est alors que j’ai compris qu’il était mort, c’est-à-dire que je ne le reverrai jamais.

(C’est ce que signifie « réaliser » la mort de quelqu’un. Car ce n’est pas lorsque nous apprenons qu’il n’est plus et que nous assistons à ses obsèques, que nous comprenons qu’il est mort, mais lorsque nous songeons tout à coup à lui, sans nécessité apparente, des mois ou des années après.

Je n’aimais pas particulièrement Celan – sa susceptibilité le rendait souvent odieux, ensuite, en une circonstance, il s’est comporté à mon égard, d’une façon scandaleuse, il était même capable d’être féroce – mais enfin il avait un sourire, un des plus beaux que j’aie jamais connus, et si, tout à l’heure, j’ai eu quelque chose comme une émotion en pensant subitement à lui, c’est qu’il existait pour moi.) » (24 septembre 1970, p. 842)

« Cet après-midi, Celan sera à l’honneur, à l’Institut allemand. Il avait du charme, nul doute là-dessus. Et cependant quel homme impossible ! Après une soirée avec lui, on était épuisé, car la nécessité de se contrôler, de ne rien dire qui put le blesser (et tout le blessait), vous laissait à la fin sans force, et mécontent, totalement, de lui et de soi-même. On s’en voulait d’avoir été si lâche, de l’avoir ménagé à tel point, et de n’avoir pas explosé enfin.

Hommage à Celan, au Centre allemand. L’acteur qui a lu les poèmes, j’aurais voulu que les acteurs qui lisent les poèmes en France fussent là pour voir comment on doit lire la poésie.

(Un poète français qui, a lu trois pages de sa façon, en guise d’introduction à la séance a cru bon de répéter trois fois exorbitant à l’attention avec laquelle on doit lire Celan. J’ai failli le siffler mais le moment ni le caractère de la solennité ne s’y prêtaient.

Même Celan, qui a quelque chose à dire, je suis étonné de voir à quel point il était hanté par les questions de langage. Le mot était une obsession chez lui – et, punition méritée, ce qu’il y a de moins réel dans sa poésie relève de cette acrobatie verbale où il devait aboutir.

La poésie actuelle périt par le langage, par l’excès d’attention qu’elle lui voue, par cette idolâtrie funeste.

La réflexion sur le langage aurait tué même Shakespeare.

L’amour des mots, oui ; mais non l’appesantissement sur eux. La première passion est génératrice de poèmes ; la seconde, de parodie de poèmes. » (20 novembre 1970, p. 880)

(Cioran n’entre jamais dans la poésie de Celan, il se contente de rôder autour. Sur le langage, il dit vrai : c’est à propos de poétique que Celan rechercha une dernière rencontre avec Heidegger en 1969 – GD).

« Strette de Paul Celan, les Elégies de Duino réduites au squelette et au cri, à un Krampf verbal. » (8 avril 1971, p. 925).

« Depuis toujours, mes rapports avec mon pays n’ont été que négatifs, c’est-à-dire que je le rends responsable de toutes mes faiblesses et de tous mes échecs. Il m’a aidé à ne pas me réaliser, il a favorisé mes défauts, il est cause de ma dégringolade. J’ai sans doute de penser ainsi. Mais cette façon, c’est de penser, c’est encore à mon pays que je la dois… » (27 avril 1971, p.935).

« Je possède un flair spécial pour déceler la férocité chez mes semblables.

(Paul Celan était un de ces hommes féroces, tout en étant en même temps très doux. Sa férocité était morbide, donc excusable. » (28 avril 1971, p. 937).

« – Nuit atroce. A 4 heures du matin j’étais plus éveillé qu’en plein jour. Ai pensé à Celan. C’est dans une nuit pareille qu’il a dû se décider soudain à en finir. (Mais la décision il devait la porter en lui depuis longtemps. » (6 mai 1971, p. 940).

Les références à Celan dans les Cahiers de Cioran cessent sur ce cauchemar. Il est surprenant de constater qu’alors que pendant toutes les années 1960, Paul Celan mène une lutte désespérée contre les accusations de plagiat lancées contre lui par la veuve du poète Yvan Goll, Cioran ne parle jamais de cette sinistre affaire.

Du côté de Celan, les informations sont plus parcimonieuses. Les voici selon la chronologie Celan publiée dans le fort volume « Paul Celan – Gisèle Celan-Lestrange, Correspondance (1951-1970), Vol II, Seuil, Paris, 2001 :

  1. a) Dans une lettre à sa femme du 7 janvier 1960, Celan annonce qu’il verra Cioran le lendemain. (Mais cela n’est pas confirmé)
  2. b) Le 21 janvier 1959, Paul Celan avait noté dans son agenda : 3 h Cioran \ (C. inchangé, pas clair, menteur, \ suspect). (PC-GCL : p. 132). Ce n’est qu’entre 1964 et 1967 que PC apprendre la véritable nature de l’engagement de Cioran en Roumanie (id., p.516)
  3. c) 31 mai 1964 : Cioran invité chez les Celan à Moisville. (p. 547)
  4. d) 16 juin 1964 : Celan invite Cioran chez lui rue de Longchamp.(p. 548)

C’est dans la notice biographique de Cioran figurant dans ce même volume (p. 743) que l’on trouve une mise au point sur les relations Cioran/Celan : Dès l’époque de la traduction du Précis de décomposition, Cioran avait informé Celan de ses accointances avec les Gardes de fer.- Mais il prétendait avoir quitté définitivement la Roumanie en 1937. Or c’était faux : le critique littéraire juif roumain Ovid Crohmălniceanu avec lequel Celan s’était lié quand il habitait à Bucarest dans l’immédiat après-guerre lui apprit en 1967 que Cioran était bel et bien à Bucarest en janvier 1941 lors de la rébellion légionnaire. Bouleversé, Celan rompit alors toutes relations avec Cioran.

Je me répète : Il serait vraiment intéressant de savoir ce que ce dernier faisait à cette date dans une capitale en proie à de violentes convulsions fascistes. La lecture suivie et intégrale des Cahiers laisse transparaître un malaise existentiel de leur auteur comme s’il était porteur d’une faute inexpiable…

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Cioran, le paysan de Paris (suite 3)

Je poursuis la publication d’extraits des Cahiers de Cioran publiés en 1997, peu après sa mort. Il ne nous cache rien du désarroi profond que représentent les quelques thèmes dominants de ces textes couvrant quinze ans de sa vie. Ce qui m’a le plus surpris, c’est l’ennui lancinant (il en parle quasiment toutes les deux pages) du pays roumain qui à sa naissance était encore hongrois. (Mais je dois à la vérité historique de rendre hommage aux Marginimea Sibuilui – les Marges (ou mieux: les Marches) de Sibiu – une couronne de dix-huit communes montagneuses (dont le Rasinari de Cioran et mon Sibiel) faite de villages homogènes peuplés de bergers roumains adonnés avec succès depuis le haut moyen-âge, à l’élevage  des moutons par transhumance. Mais cet ennui ne l’empêche pas non plus de dire tout le mal qu’il pense de compatriotes incapables au fil du temps de se conquérir de quoi vivre la tête haute (à part dans les Marginimea!). Je ne reviendrai pas sur le machiste (pas un mot sur la femme qui l’entretient et publiera ces Cahiers posthumes), ni sur l’hypocondriaque que ses innombrables bobos n’empêcheront pas de finir octogénaire, encore moins sur le héraut du suicide dont la générosité existentielle se borne à  fournir en matière première de lointains cimetières.

« Exposition Giacometti. Peintre et sculpteur surfait. On aurait dû faire un choix et l’exposer dans une ou deux salles au lieu de le diluer dans toute l’Orangerie.

Ses dernières années sont admirables. Pourquoi avoir sorti son œuvre d’avant-guerre ? il est original et frappant qu’à partir du moment où il s’est trouvé, c’est-à-dire les années où il girafise, où il amincit le corps et la tête au point de leur enlever épaisseur, masse, poids. C’est un attentat des plus subtils contre la matière, la lourdeur. Giacometti avait le génie de l’amenuisement ; même quand il est grandiose, il l’est dans le… diminutif. » (12 décembre 1969, p. 772)

« La violence est ce qui me définit en propre. Et de ne pouvoir l’exercer, de devoir la refouler, emmagasiner, je me sens à côté de celui que je suis réellement. Irréalisé par modération, veulerie, « sagesse », réflexion, atavisme. – L’explosion, non, le besoin d’explosion, c’est cela que je ressens, et comme je sais que je ne peux pas exploser, je me consume en regrets, je m’épuise à me haïr, je m’en veux de ne pas être à mon propre niveau, – je voudrais me casser la gueule par exaspération contre mes accommodements, mes concessions, mes résignations. Je n’en peux plus à force de me contenir. Il va falloir hurler enfin – hurler pour ne plus hurler. (14 décembre 1969, p. 773).

« Je m’entends mieux avec les Juifs roumains qu’avec les Roumains « proprement dits » Ce fut déjà ainsi, il y a trente-cinq ans, avant le malentendu créé par la Iron Guard [Garde de fer, parti fasciste roumain dans les années 1930  –  GD]. Avec les Juifs, tout est plus complexe, plus dramatique et plus mystérieux qu’avec ces bergers et ces paysans enfoncés dans leur destin malheureux, et cependant quelconque. (4 janvier 1970, p.783).

« Balade à Offranville. C’est ici que pendant l’été 1947, j’ai décidé de rompre avec le roumain. J’y traduisais Mallarmé, je m’en souviens ; à un certain moment, je réalisai l’absurdité et l’inutilité totale de mon entreprise. Ma patrie avait cessé d’exister, ma langue de même… A quoi bon continuer d’écrire dans un idiome accessible à un nombre infime de compatriotes, en réalité à une vingtaine tout au plus ? Je décidai sur le champ, d’en finir, et de me vouer au français. Deux ans après le Précis de décomposition était terminé, non sans une peine considérable. » (30 juillet 1970, p.821)

« Sanda Golopenţia me raconte que l’université américaine de Bloomington où elle vient de passer un an comprend quarante mille étudiants et la vile du même nom trente mille habitants seulement.

Une telle anomalie est annonciatrice de désastre.

Dans ces sociétés dites avancées où le plombier est aussi rare que le génie, seul prolifère le faux intellectuel, l’universitaire nul et prétentieux, qui s’érige en révolutionnaire pour dissimuler son néant. (26 août 1970, p.826)

 

« Lucien Goldmann est mort. C’est l’homme qui m’a fait le plus de mal dans ce monde, qui a répandu dans Paris pendant vingt ans des calomnies atroces sur mon compte, qui a mené une campagne systématique contre moi, avec un succès total, puisqu’il a réussi à faire le vide total autour de mon… nom. N’importe qui à ma place aurait eu des réactions à la Céline. Mais j’ai réussi à surmonter une tentation aussi basse qu’explicable et humaine. Je me suis réconcilié avec lui et je lui ai même pardonné. Il y a dix ans sa mort m’aurait réjoui ; – maintenant, elle m’inspire des sentiments contradictoires où se trouve de tout, même du regret.

Je ne lui en ai jamais voulu réellement. En secret, j’étais content qu’il m’ait rendu odieux ; sans ses calomnies, j’aurais été accepté, adopté, et, au lieu de me concentrer, je me serais dispersé. Il est sans doute fâcheux d’avoir un ami actif ; mais par certains côtés, c’est profitable, car il vous empêche de vous endormir dans le confort et la sécurité. Sans lui, ma vie, depuis 1950, aurais pris une autre tournure. Je crois même que j’aurais pu faire une carrière… universitaire. Mais il m’a barré le chemin partout, car il était puissant étant omniprésent. Si j’étais entré au C.N.R.S., j’aurais fait une thèse, nécessairement illisible, comme toute thèse. Je ne sais pas ce que valent mes livres ; du moins sont-ils mes livres, et les ai-je écrits pour moi seul ; c’est pourquoi ils ont mérité de trouver quelques lecteurs (…) » (5 octobre 1970, p. 853)

« Je viens de parcourir le Journal de Klee. Quelle déception ! Qu’importe ! Je n’oublierai jamais la sensation de plénitude que j’ai ressentie à l’exposition de son œuvre, il y a quelques mois. » (6 novembre 1970, p. 872).

« Jeune, j’aimais me mettre tout le monde à dos ; vieux je n’ai plus la force de cultiver mes ennemis, d’aiguiser et d’entretenir leur haine. Ma réconciliation avec Goldmann en fut l’exemple éclatant. Il devait mourir bientôt après : il ne put survivre à notre réconciliation. » (19 janvier 1971, p. 904)

« Quatre jours splendides. Nohant – la vallée de la Creuse – la Sologne.

En quatre jours presque cent kilomètres à pied. Sentiment de vie vraie, de réalité, de quelque chose qui n’existe plus.

On ne peut plus voyager qu’en hiver, saison où l’on rencontre le moins la face hideuse du touriste. Villages déserts, routes vides, quel bonheur ! » (24 février 1971, p. 911).

« Les gens qui ont de la classe ne sont pas particulièrement inventifs en fait de langage. Y montrent des aptitudes et de l’originalité les gens loquaces, presque vulgaires, ou du moins qui poussent la vivacité jusqu’à la forfanterie, ou à la dégueulasserie quelque peu délirante.

Le génie verbal est souvent l’apanage de ceux qui font peuple.

L’éducation nuit à la fraîcheur, à la vigueur du langage.

Céline ne sort pas d’un salon. A peu près tous ceux doués d’un génie verbal que j’ai connus manquaient de manières : ils étaient des natures, ils vivaient à même le langage. » (9 mars 1971, p.913)

«  Histoire et haine : celle-ci est le moteur de la première. C’est la haine qui fait marcher les choses ici-bas, c’est elle qui empêche l’histoire de s’essouffler. Supprimer la haine : c’est se priver d’événements.

Haine et événements sont synonymes. Là où il y a haine, quelque-chose se passe. La bonté est au contraire statique ; elle conserve, elle arrête, elle manque de vertu historique, elle freine tout dynamisme. La bonté n’est pas complice du temps ; alors que la haine en est l’essence. » (1er juin 1971, p.949).

« Dans le Journal d’exil de Trotski, entre des considérations politiques qui datent forcément, il intercale cette remarque, qui rachète tout le reste : La vieillesse est la chose la plus inattendue de toutes celles qui arrivent à l’homme. » (21 septembre 1971, p. 991). (Alors exilé en France, Trotski écrivit ces lignes le 8 mai 1935 à l’âge de 56 ans. Il fut assassiné à Mexico cinq ans plus tard. Cioran venait pour sa part d’entrer dans sa soixantième année quand il releva cette remarque. Il eut encore vingt-quatre années pour la méditer. Dont, lui le héraut du suicide, les deux dernières en asile et sur une chaise roulante. GD)

 

 

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Cioran, le paysan de Paris (Suite 2)

D’avoir décidé de relire – juste pour humer le texte – les Cahiers 1957-1972  de Cioran m’a en réalité entraîner à une relecture complète, pour le plaisir! Je l’ai fait en relevant au passage quelques notes qui m’ont frappé pour une raison ou une autre, le plus souvent par simple intérêt personnel, sans tenir compte des gémissements de l’hypocondriaque le plus imbu de lui-même de la littérature parisienne de l’après-guerre. Je donne donc une suite au post publié il y a quelques semaines. D’autres suivront, dont un récit des rencontres entre Cioran et Celan.

« L[ucien G[oldmann] – mon ennemi le plus acharné qui ne cesse de me calomnier depuis une vingtaine d’années. Il a créé le vide autour de moi (…) Et cependant je lui dois beaucoup. Sans sa campagne de dénigrement, tout aurait été trop facile pour moi, j’aurais aujourd’hui un nom, c’est-à-dire que je serais un cadavre. » (2 janvier 1967). (p.456) (Cioran était proche de la pensée de Goldmann par son admiration pour Pascal. Sur Goldmann dont la carrière fut aux antipodes de celle de Cioran et est aujourd’hui oubliée, voir l’intéressant article de Michael Lowy https://blogs.mediapart.fr/michael-lowy/blog/061112/lucien-goldmann-le-pari-socialiste-dun-marxiste-pascalien J’ai connu Goldmann en mai 1962 pour lui avoir demandé au nom  du Mouvement Démocratique des Etudiants une conférence sur la sociologie du roman qu’il donna au théâtre des Faux-Nez à Lausanne. GD)

« Je suis plongé en plein Luther. Et ce que j’aime chez lui, c’est la verve, la fureur, l’invective, l’action. Voilà un homme que j’aime et qui pourtant, é l’opposé de mes goûts actuels, voulait tout remuer, tout bouleverser. Il me rappelle l’orgueil dément que j’avais dans ma jeunesse et c’est pourquoi, je crois, il me passionne. D’ailleurs je n’ai jamais cessé de me sentir attiré par son tempérament, sa savoureuse grossièreté, son prophétisme relevé par la scatologie. (…) Si j’aime tellement Luther, c’est qu’on ne peut rien lire de lui, lettre, traité, déclaration sans se dire : Voilà un homme en chair et en os. Et, de fait, il n’est jamais abstrait, tout ce qu’il avance est plein de sève, il est lui partout. C’est le contraire du détachement – cet idéal, si opposé à ma nature, auquel je m’acharne depuis tant d’années en pure perte. » (2 août 1968) (p. 607)

« J’ai appris à taper en me servant du Dernier Homme de Blanchot [Gallimard, 1957]. La raison en est simple. Le livre est admirablement écrit, chaque phrase est splendide en elle-même, mais ne signifie rien. Il n’y a pas de sens qui vous accroche, qui vous arrête. Il n’y a que des mots. Texte idéal pour tâtonner sur le clavier de la machine. Cet écrivain vide est quand même un des plus profonds d’aujourd’hui. Profond à cause de ce qu’il ce qu’il entrevoit plutôt que de ce qu’il exprime. C’est l’hermétisme élégant ; ou plutôt de la rhétorique sans éloquence. Un phraseur énigmatique. Quelqu’un, un journaliste, l’avait bien dit un jour : un bavard. » (15 octobre 1968, p. 622)

« Je vais m’accrocher à ces cahiers, car c’est l’unique contact que j’aie avec l’« écriture » Cela fait des mois que je n’ai plus rien écrit. » (29 décembre 1968, p. 657)

« Je viens de lire Gelassenheit de Heidegger [Klett-Cotta, Stuttgart, 1959]. Dès qu’il emploie le langage courant, on voit qu’il a peu à dire. J’ai toujours pensé que le jargon est une immense imposture. Pour mettre les choses au mieux, on pourrait dire : le jargon est l’imposture des gens honnêtes. Mais c’est être indulgent que de présenter les choses ainsi. En réalité dès qu’on saute du langage vivant pour s’installer dans un autre, fabriqué, il y a une volonté plus ou moins inconsciente de tromper. » (25 janvier 1969, p.673)

« Je viens d’apprendre qu’Abellio se lève à 5 heures du matin pour écrire jusqu’à 9, heure à laquelle il va au bureau. Et moi… Mais à quoi bon ? Je ne fais rien, c’est entendu. Mais je vois les heures passer – et cela vaut peut-être mieux que de les remplir. » (22 février 1969, p. 693) [Raymond Abellio, La Fosse de Babel, Gallimard, 1962.]

« On me reproche certaines pages de Schimbarea la faţă, livre écrit il y a trente-cinq ans ! J’avais vingt-trois ans, et j’étais plus fou que tout le monde. J’ai feuilleté hier ce livre ; il m’a semblé que je l’avais écrit dans une existence antérieure, en tout cas mon moi actuel ne s’en reconnaît pas l’auteur. On voit à quel point le problème de la responsabilité est inextricable. Combien de choses j’ai pu croire dans ma jeunesse ! » (28 février 1969, p. 694))

« Je viens de rencontrer Goldmann chez Gabriel Marcel, puis nous nous sommes promenés, ensuite nous sommes entrés dans un café. Il m’a accompagné jusqu’à chez moi. C’est un homme qui a un certain charme. Pendant vingt ans il m’a fait une réputation d’antisémite, et m’a créé énormément d’ennuis. En une heure nous sommes devenus amis. Que la vie est curieuse ! Un marxiste ne peut pas comprendre l’ennui en soi, l’anxiété en soi. J’en parle à Goldmann en lui citant Pascal. Il soutient que les conditions économiques ont changé, qu’il n’y a pas de raison de s’accrocher à l’« angoisse ». L’histoire n’est qu’un malentendu interminable. Les jeunes en France jurent par Mao. Demain on révélera ses crimes, on le dénoncera comme on l’a fait pour Staline. » (1er mars 1969, p. 695)

« Mon drame : un violent engagé sur le chemin de la sagesse, un violent qui s’émascule, qui réfrène tous ses mouvements. Quelle est ma vraie nature, quelles sont mes envies ? C’est de gifler, de cracher à la figure des gens, de gueuler, de traîner quelqu’un par terre, de le piétiner, de rugir, de me contorsionner. Je me suis exercé à la sagesse pour humilier ma rage et ma rage se venge aussi souvent qu’elle peut. » (16 avril 1969, p. 712).

 « L’énorme réputation de Heidegger. Tout le monde s’est laissé prendre à son immense imposture linguistique. Pourtant mon opinion sur lui est faite. Ce que m’a dit Ioan Alexandru sur l’entretien qu’il eut avec le grand homme m’a édifié : aux questions simples et profondes que le poète roumain lui posa, le philosophe répondit par des banalités. C’est que ne pouvant user de son jargon habituel il ne pouvait rien dire dans la langue courante, vivante, normale. La tricherie était impossible. » (3 juin 1969, p. 734)

« Ma vie intellectuelle a commencé par ma foi en ma mission (l’époque de Schimbarea la faţă). A vingt-trois ans j’étais prophète ; et puis, cette foi s’est affaiblie, et d’année en année j’ai assisté au déclin de ma croyance en une mission à remplir, en une influence à exercer. J’ai bien peur ( ?) que ce ne soit le sceptique en moi qui ait gain de cause en tout dernier lieu. Avec l’âge je suis devenu modeste, c’est à dire de plus en plus normal. Or un homme quelque peu équilibré ne peut pas s’arroger une mission, ni croire passionnément en lui-même. Quand je pense qu’en 1936 ( ?) à Munich, je vivais avec une telle intensité que j’en étais venu à penser qu’une religion nouvelle allait surgir dans les Balkans, tant ma fièvre me donnait confiance en moi. Une confiance qui me terrifiait, car je ne croyais pas que je pourrais supporter encore longtemps une tension pareille. (J’ai suivi exactement le trajet opposé à celui de Nietzsche. J’ai commencé avec… Ecce Homo. Car Pe culmine disperării, c’est cela : un défi adressé au monde. Maintenant tout défi me paraît trop enfantin, et je suis trop sceptique pour en commettre encore un.) (17 novembre 1969, p.761) (Superbe autoportrait dans la démesure et une infatuation typiques du mâle roumain. GD)

( Cioran: Cahiers, 1957-1972. Avant-propos de Simone Boué. Gallimard, 1997, 999 pages)

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Cioran, le paysan de Paris

Je me suis plongé avec grand plaisir dans une relecture des Cahiers de Cioran rendue encore plus intéressante par le recul, les années passées et surtout ma propre intégration dans le paysage et les mœurs immuables de son enfance, à un vingtaine de kilomètres de son village natal.On peut allègrement sauter le 80% de ces notes jetées au hasard sur le papier. Mais dans le reste, il y a matière à réflexion, voire à information comme les rencontres impromptues avec Celan malade. Curieusement Cioran nous permet de nous repérer surtout en datant ses promenades pédestres dans les environs de Paris.( Cioran: Cahiers, 1957-1972. Avant-propos de Simone Boué. Gallimard, 1997, 999 pages)

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« Voilà des années que je ne cesse de déchanter sur Valéry. Quand je pense à l’influence qu’il a eu sur moi (sensible dans le Précis de décomposition). Son style que j’aimais, il m’irrite maintenant. Ensuite il veut paraître toujours intelligent. L’élégance nuit à la pensée. Et il est trop élégant. » (Cioran, nov. 1962, Cahiers, p.121)

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« Mon drame est d’être un ex-ambitieux. Mes aspirations, mes folies d’autrefois, j’en discerne de temps en temps les prolongements. Je ne suis pas tout à fait guéri de mon passé. » (Oct. 63, Cahiers p. 188)

C’est ainsi que j’ai interprété il y a déjà pas mal de temps son rejet de la langue roumaine et de la Roumanie, comme une manière de racheter la honte – authentique – de sa première vie, de ses engagements légionnaires (donc fascistes et antisémites) et de son livre Transfiguration de la Roumanie.

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« 18 décembre [1964] – Sept ans depuis la mort de mon père. C’est-à-dire qu’il ne reste plus rien de ce qu’il fut, rien, sauf le squelette. » (ibid, p.248)

C’est le dernier parastas. En bon orthodoxe, il aurait même pu ajouter « à condition que les os soient propres ».

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« Que j’aie été dans ma jeunesse un ambitieux, cela ne fait pas de doute ; que j’aie cessé de l’être non moins. Si je m’en félicite parfois, le plus souvent je m’en afflige, car, sans ambition, si je suis devenu en quelque sorte supérieur à moi-même, j’ai perdu en même temps le ressort même de mon être. » (ibid. 2 janvier 1966, p 325).

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« J’ai appris hier soir, à un dîner, qu’on vient d’interner P. Celan dans une maison de santé, après qu’il eut tenté d’égorger sa femme. En rentrant tard dans la nuit, je fus saisi d’une véritable peur et eus tout le mal du monde à m’endormir. Ce matin, au réveil, j’ai retrouvé la même peur (ou angoisse si on veut) qui elle, n’a pas dormi. Il avait un grand charme, cet homme impossible, d’un commerce difficile et compliqué, dès qu’on oubliait ses griefs injustes, insensés, contre tout le monde. » (ibid. 5 janvier 1966, p. 326)

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« La Réforme vaut largement la Révolution française. Donc les Allemands ne sont pas si exempts d’esprit révolutionnaire. Seulement ils s’émancipèrent sur le plan spirituel bien avant de s’émanciper politiquement. Leur rupture avec Rome qui était pourtant inscrite dans leur nature et leur destinée, on dirait qu’ils ne s’en sont jamais remis. » (ibid. [?] février 1966, p. 343)

(J’ai noté ces quelques lignes pour la première phrase qui souligne une évidence largement méconnue. Le reste n’est que pompeuses jacasseries.)

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 « P. C[elan] que je savais à Sainte-Anne, je l’ai rencontré hier soir dans la rue. J’eus peur comme devant une apparition. Je me rappelle à quel point j’étais retourné quand, quand il y a quelques mois, j’ai appris qu’il venait d’être interné. » (ibid., 16 juin 1966, p. 371)

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« Un journal (Tagebuch ) empêche peut-être de travailler ; en revanche il rend service, il remplace utilement un ami. C’est déjà quelque chose que de pouvoir se passer de confident ». (ibid., 9 octobre 1966, p.418).

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« Tenir un journal, c’est prendre des habitudes de concierge, remarquer des riens, s’y arrêter, donner aussi trop d’importance à ce qui vous arrive, négliger l’essentiel, devenir écrivain dans le pire sens du mot. » (ibid., 5 novembre 1966, p. 434).

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« Il y a maintenant trois ans et cinq mois que j’ai renoncé au tabac et au café, il y a maintenant trois ans et cinq mois que j’ai perdu mon âme.

La chose la plus bête qu’on puisse faire, c’est d’étudier la philosophie. On peut étudier un problème, mais il est absurde de se borner à… l’ensemble des problèmes. Dire que je suis passé par cette erreur-là !

J’ai vu ma sœur pour la dernière fois en 1937, je crois ; mes parents en janvier 1941. Depuis de rares photos, et celles sur leur lit de mort (excepté celle de ma mère, je veux dire sa dernière image, qu’on n’a pas voulu m’envoyer, je ne sais pas pourquoi : pour ne pas trop m’attrister ?)

Je songe aux années 1933-34-35, à la folie qui s’était emparée de moi, à mes ambitions démesurées, au délire « politique », à mes visées positivement démentes, – quelle vitalité dans le déséquilibre ! J’étais fou sans fatigue. Maintenant, je suis fou avec fatigue. A vrai dire, je ne suis même pas fou, je conserve seulement le résidu de mes anciennes folies. La fatigue, elle, loin de s’être retirée, elle est au contraire en expansion, elle bat son plein. Où va-telle me mener, je n’en sais rien. » (ibid., 14 décembre [1966], p. 447).

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 « Tout l’après-midi à envoyer des cartes de vœux en français et surtout en roumain. Je ne reviens pas à ma langue maternelle, j’y retombe, je m’y noie. Le naufrage natal. Je viens d’écrire à une amie de Sibiu qui m’évoquait dans sa lettre le charme de son jardin à Gura-Râului qu’en venant en Occident j’ai commis peut-être une erreur, que chacun deevrait vivre et mourir dans le paysage où il est né. Au fond les paysans ont raison et leur genre de vie est – était plutôt – le seul raisonnable, le seul « humain » (si ce mot conserve encore un sens). (ibid., 2 janvier 1967, p. 455.)

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« Sartre – essayé de lire ou relire certains essais. Malaise. Trop systématique. Mauvaise foi permanente. Rien de profond. Il vise au brillant, souvent il y atteint. Je ne sais pas pourquoi il me fait penser à un Giraudoux rigoureux, germanique. Ironie ininterrompue, lourde, ironie alsacienne. Avec cela, précieux, oui. C’est par là qu’il s’apparente à Giraudoux. Je n’ai besoin ni de l’écrivain ni du penseur. Je lui préfère n’importe qui. Je suis injuste à son égard, mais ne vois pas la nécessité de lui rendre justice. Et quelle signification cette élégance aurait-elle, puisqu’elle m’est inutile ? Ce qui me gêne  chez Sartre, c’est qu’il veut toujours être ce qu’il n’est pas. ([25] mars 1967, p. 489)

(Voilà un bel exemple du parisianisme d’un intellectuel roumain colonisé qui essaie de faire mieux que le colonisateur. Pauvre Cioran ! S’il avait prêté plus d’attention à Question de méthode – voire, auparavant, au Discours de la méthode – il eût pu rentrer chez lui après quelques années, oublier maux et tortures et retrouver ses montagnes transylvaines et leurs moutons.)

 

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